mercoledì 3 maggio 2017

Hockney, il potere delle immagini dalle caverne all'Ipad



Compie ottant’anni a luglio e crea opere d’arte usando l’iPad. David Hockney oltre a essere tra i massimi esponenti dell'avanguardia anglosassone negli anni '60 del secolo scorso, è uno degli artisti più popolari nel Regno Unito (il 17 novembre scorso Sotheby's ha battuto la sua opera «Woldgate Woods, 24, 25 and 26 October 2006» a 11,7 milioni di dollari)  e alla Tate Britain di Londra è in corso la più vasta retrospettiva che gli sia stata mai dedicata sinora. Organizzata con il Centre Pompidou di Parigi e il Met di New York, la mostra riunisce i suoi lavori più significativi: dai primi «Love Painting» (1960-61) con i quali ha sovvertito il linguaggio dell'Espressionismo astratto in un'autobiografia omoerotica,  alle opere realizzate dopo il suo ritorno in California nel 2013 compresi i ritratti di familiari, amici e di se stesso, come  «Self Portrait with Blue Guitar» 1977;  le sue iconiche immagini piscine di Los Angeles e ovviamente le opere realizzate con l’app “Brushes” sul suo iPad che gli ha permesso, a suo dire, di risolvere il problema della luce mutevole.   

Utilizzando il suo dito come un pennello intinto nei colori virtuale, David Hockney crea paesaggi – alcuni dei quali prodotti  en plein air, come gli impressionisti – ritratti, vedute poi stampa le opere con pigmenti veri usando stampanti speciali. «L'arte deve capire la tecnologia, farla propria», ha spiegato recentemente il maestro. «La tecnologia ha sempre cambiato il senso delle immagini e le immagini sono il potere. Se l'arte fa a meno delle immagini, perde ogni possibilità, ogni potere. Ho cominciato prima a dipingere con l'iPhone. Poi, nel 2010, ho subito preso l'iPad in California. In Inghilterra non ce l'aveva nessuno. Per realizzare un dipinto con l'applicazione Brushes impiego un'ora. Con l'iPad non hai bisogno di nient’altro: hai tutti i colori sempre con te. Il risultato è diverso rispetto a quello della pittura vera. Ma una cosa non esclude l'altra».
Incisore, disegnatore e ritrattista, nonché fotografo ed autore di alcuni collage fotografici realizzati con le Polaroid , Hockney usa  nuove tecniche per testare se stesso ma anche per costringere chi guarda i suoi quadri a considerare ciò che è tradizionale in modo innovativo e contemporaneo. La sua è una sfida nei confronti della maniera occidentale di rappresentare il mondo: con uno stile apparentemente semplice, Hockney  ostenta la spensierata atmosfera californiana tra ville lussuose, piscine assolate e giardini disciplinati; puntando su una palette vitaminica, fissa su tela un istante che diventa eterno; così la piacevole vita di Hollywood si trasforma in natura morta.   
Vulcanico artista senza timori, pronto a sperimentare e a trattare temi come l'omosessualità che all’epoca era ancora illegale in Gran Bretagna,  Hockney si è sempre interrogato su cosa rende interessante dei segni su una superficie piatta. Ma anche come condensare il tempo e lo spazio in un'immagine statica, su una tela o su uno schermo.  Del resto,  sostiene Hockney, creare un’immagine è l'unico modo che abbiamo a disposizione per dar conto di ciò vediamo. I risultati vengono spesso catalogati come pitture, fotografi e o film, per poi essere ordinati secondo epoche e stili. Ma di fatto, che siano prodotti con un pennello, un apparecchio fotografico o un programma digitale, che siano sulle pareti di una caverna o sullo schermo di un computer, per l’artista inglese sono innanzitutto delle immagini. 

E proprio alle immagini è dedicato l’ultima fatica letteraria di Hockney. Per i tipi Einaudi è infatti appena uscito il libro “Una storia delle immagini” (pagine 350,  € 65) scritto in collaborazione con il critico Martin Gayford: un volume di grande formato nel quale, con l’ausilio di un vasto apparato iconografico, i due autori - scambiando opinioni, ponendosi  domande e cercando risposte - costruiscono un percorso che non procede in modo lineare, ma con continui rimandi a epoche, autori e tecniche espressive diverse ricercano dei legami e delle interazioni tra tutte le forme di rappresentazione bidimensionale della realtà. Non importa se fatta in punta di pennello o dall’occhio di una telecamera di sorveglianza: c’è un filo rosso che unisce il «Toro» delle grotte di Lascaux in Francia (15000 prima dell’era cristiana) alla «Civetta» di Picasso (1952), un fotogramma di «Metropolis» di Fritz Lang (1927) alla «Torre di Babele» di Bruegel il vecchio (1565), lo sguardo della «Gioconda» (1503-1519 circa) e quello di Marlene Dietrich in un celebre ritratto fotografico del 1937; un cartone animato di Disney con una stampa di Hiroshige, una scena di un film di Ejzenštejn con un dipinto di Velázquez.
Hockney e Gayford sostengono che fotografia, film, pittura e disegno sono sempre infatti profondamente connessi gli uni con gli altri e che ogni immagine, selfie compresi , ha una sua dignità, in quanto espressione dello sguardo con il quale l’autore vede, idealizza, cerca di comprendere ed esprimere le persone e l’ambiente che lo circondano.  «La storia delle immagini», scrive Hockney nel volume, <comincia nelle caverne e termina, per ora, con l’iPad. Chi sa come continuerà? Ma una cosa è certa, il problema dell’immagine sarà sempre presente: la sfida di descrivere il mondo in due dimensioni è un problema costante. Voglio dire: non lo risolveremo mai».

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