mercoledì 15 novembre 2017

Outsiders: gli artisti che la vita prese a calci in culo

Anita Berber
«La baronessa non è una futurista: lei è il futuro», disse Marcel Duchamp a proposito di Elsa von Frenytag-Loringhoven. E aveva ragione. Nata povera nel 1874 a Swinemunde (città sul Mar Baltico della Pomerania), divenuta nobile ma morta in miseria nel 1927 in circostanze mai chiarite, Elsa è stata un'artista che ha anticipato di mezzo secolo mode e tendenze. Tre matrimoni e molti colpi di scena alle spalle, bisessuale, sempre eccentrica nel modo di presentarsi (come quando si rasava il cranio o si adornava con oggetti pescati nei cassonetti della spazzatura), affetta da incurabile cleptomania, era conosciuta al tempo per le performance che metteva in scena - seminuda o vestita di lattine - nei luoghi più inconsueti, fra cui bettole mal frequentate o strade e piazze newyorkesi. Ma anche perché recuperava cose dai bidoni dell'immondizia e li usava per assemblaggi, sculture, pitture trasformando i rifiuti in opere d'arte. Il suo nome era noto pure per le poesie, alcune di esse dedicate al folle e non ricambiato amore di quella stagione, quello per il dada Duchamp al quale suggerì perfino l'idea del suo rivoluzionario orinatoio (Fountain) del 1917. Di lei, oggi, non si ricorda quasi più nessuno.

martedì 31 ottobre 2017

Take Me (I'm Yours): la mostra che rompe i tabù sulle opere d'arte



«Prendimi. Sono tuo». Non succede mai che visitando una mostra lo spettatore venga invitato a portarsi via gratuitamente un'opera d'arte. Né tanto meno a manometterla o crearne di nuove. E invece al Pirelli Hangar Bicocca dove inaugura oggi la mostra collettiva “Take Me (I'm Yours)” sì può fare. Anzi si deve, perché al visitatore viene chiesto di fare tutto quello che di norma è vietato in un museo: toccare, modificare, comprare, lasciare, scambiare e in molti casi portare via i lavori esposti, scardinando il “mito” dell'unicità dell'opera e mettendo in discussione i suoi modi di produzione. Da Yoko Ono a Francesco Vezzoli, da Maurizio Cattelan a Gianfranco Baruchello, da Ugo La Pietra a Luigi Ontani e Giorgio Andreotta Calò (tanto per citarne alcuni): 56 artisti hanno accettato di far parte del progetto ideato agli inizi degli anni Novanta da Hans Ulrich Olbrist e Christian Boltanski che ha come obiettivo quello di rompere i tabù legati all'arte e ripensare i modi in cui viene esposta e fruita. «Questa mostra va al di là dei confini dello spazio espositivo», ha spiegato Obrist. «continua nelle case dei collezionisti, si modifica ogni volta che un visitatore prende o lascia qualcosa. Questa mostra è la realizzazione pratica di quanto auspicato da William Morris quando parlava di “arte per tutti”».

venerdì 27 ottobre 2017

Dalla ligera al bel Renè: Milano e la mala

Il 27, oggi come allora, era giorno di paga e il blindato della Banca Popolare di Milano era carico di soldi più che mai. Alle 9,35 del mattino di quel freddo febbraio del 1958, in via Osoppo a Milano una banda di sette uomini con quattro veicoli rubati, grazie al falso incidente e uno speronamento per bloccare il portavalori, riuscì ad impossessarsi senza sparare nemmeno un colpo di 614 milioni di lire in contanti (pari a duemila anni di stipendio di un operaio dell'epoca). Una rapina perfetta, studiata a tavolino sul modello della "banda dei marsigliesi", che mise in ginocchio la polizia completamente impreparata a un evento di quella portata. «Ci sentivamo padroni di Milano, avevamo addosso una grande spavalderia. In fondo è stato meglio che ci abbiano preso altrimenti chissà dove saremmo arrivati», ha ricordato anni dopo uno dei rapinatori, Luciano De Maria.

sabato 21 ottobre 2017

Il bianco e nero di Salgado per raccontare l'inferno

Si sono accampate in galleria Meravigli fin dalle prime ore del mattino e alle 11,30, quando è iniziato l'incontro, ad ascoltare Sebastião Salgado c'erano oltre mille persone. Non ha voluto nessuna conferenza stampa, quello che aveva da dire sulla mostra Kuwait. Un deserto in fiamme che inaugurava alla Galleria Meravigli di Milano il maestro l'ha raccontato alle persone comuni, ai milanesi, giovani e meno, e ai turisti che non potevano lasciarsi sfuggire l'occasione di conoscerlo di persona.
Considerato uno dei più grandi fotografi del mondo, Salgado ha spiegato come l'incendio dei 600 pozzi di petrolio - ad opera dei soldati iracheni nel 1991 per ostacolare l'avanzata della coalizione militare guidata dagli statunitensi durante la Guerra del Golfo - sia stato l'episodio di inquinamento ambientale più grave di tutti i tempi ad opera dell' uomo, paragonabile a una vera e propria guerra. Lui era lì, tra i primi a intuire la reale portata e la gravità della situazione: in un paesaggio infernale che stava letteralmente bruciando davanti ai suoi occhi, iniziò a documentare quel disastro, seguendo l'operato dei vigili del fuoco (all'incontro era presente anche il pompiere Mike Miller che ha raccontanto la sua drammatica esperienza) e dei tecnici specializzati chiamati da tutto il mondo per limitare i danni e arginare le perdite. Nell’aria nera e calda di un cielo oscurato e saturo di anidride carbonica, di fronte a lui si levavano enormi colonne di fiamme e una coltre scura di petrolio copriva il deserto, le persone e le cose.  Il calore raggiunse tali temperature che uno dei suoi obiettivi si deformò. Sfidando il pericolo, lo stordimento, l'inquinamento e le alte temperature, Sebastião Salgado volle catturare i segni della devastazione e il sacrificio di centinaia di uomini.

Il risultato è un pugno nello stomaco: con 34 grandi immagini in bianco e nero esposte per la prima volta a livello internazionale Salgado racconta con luce apocalittica il contrasto dei pozzi in fiamme e la coltre scura di petrolio che copriva il deserto, le persone e le cose. Gli occhi increduli e stanchi dei vigili del fuoco, lo sforzo fisico nel cercare di domare le fiamme, il fumo divagante: nei ricordi e impressioni di Salgado, «era come affrontare la fine del mondo, un mondo intriso di nero e di morte».
La mostra - bellissima e potente - si può visitare fino al 28 gennaio 2018.


mercoledì 18 ottobre 2017

Toulouse-Lautrec, le foto proibite del genio di Montmartre

Toulouse-Lautrec non era un fotografo. Non esiste nulla che attesti che abbia mai posseduto una macchina fotografica, né che abbia mai scattato una fotografia. Eppure quel marchingegno che immortalava volti ed espressioni, gesti e attitudini, quell'invenzione che catapultò la bohème parigina degli anni 1880 nella modernità, fu fondamentale per la sua produzione artistica tanto quanto per il suo ego.
Discendente di una nobile ed antichissima famiglia francese, la vita di Henri de Toulouse-Lautrec (1864 -1901) fu segnata nell'adolescenza da due cadute che gli procurarono fratture ad entrambe le ginocchia. Non guarì mai del tutto: le sue gambe smisero di crescere e da adulto, pur non essendo affetto da vero nanismo, rimase alto solo 1,52 metri. «Il nano de la butte», «il genio deforme di Montmartre» lo chiamavano a Parigi e lui non potendo nascondere la sua evidente deformità fisica sfidava i tabù dell'epoca combattendo le ipocrisie e il perbenismo con ironia. Soprattutto verso se stesso.  Ecco allora che chiedeva ai suoi amici François Gauzi, Maurice Guibert o Paul Sescau di fotografarlo allestendo lui stesso messe in scene in cui si esibiva con un narcisismo scaturito dalla sua inesauribile immaginazione e dal suo sarcastico senso dell'umorismo. Si travestiva, inventava scenette nelle quali interpretava ruoli e coinvolgeva i suoi soldali in questi giochi e mascheramenti per affermare deliberatamente un certo esibizionismo e mostrare la sua stravaganza.

lunedì 9 ottobre 2017

#Felinghetti. Beat Generation, ribellione, poesia

Brescia, primavera del 2005. Un uomo anziano, barba ispida e poco curata, cappello calato sugli occhi si aggira per i vicoli del quartiere Carmine. Gira più volte intorno ad un palazzo, si ferma davanti al portone per leggere i nomi sul citofono. Bussa insistentemente ma non apre nessuno. Ad un certo punto si affaccia il portiere: quell’uomo coi capelli bianchi gli pare un barbone, lo insulta dandogli del «parassita», chiama la polizia. Che arriva poco dopo, lo identifica e lo ferma. «Poeta arrestato», titolano il giorno dopo i quotidiani locali. Quel poeta era Lawrence Ferlinghetti, il padre della Beat Generation, che quasi novantenne era tornato a Brescia per rimettere insieme i pezzi del suo passato a cominciare dal luogo dove era nato quel padre - emigrato giovanissimo negli Stati Uniti - che non aveva mai conosciuto e che neanche sapeva fosse italiano. Lo scoprì per caso quando a venti anni richiese il proprio certificato di nascita per arruolarsi volontario nella Marina yankee (partecipò allo sbarco in Normandia e sei settimane dopo lo sgancio della bomba atomica era a Nagasaki, cosa che gli provocò talmente tanto orrore da diventare «pacifista radicale»). Fu a quel punto che realizzò che il padre Carlo Leopoldo, morto prima della sua nascita, aveva anglicizzato il proprio cognome in Ferling per essere un autentico americano. Solo nel 1955 il poeta decise di prendere ufficialmente il vero cognome e di firmare con quello tutta la sua opera letteraria e artistica. Da quel momento in poi Ferlinghetti intraprese una lunga e tortuosa ricerca per scoprire le proprie origini. Che ha trovato appunto a Brescia.

venerdì 6 ottobre 2017

I gatti di Kuniyoshi, il visionario del mondo fluttuante


Era sempre circondato da gatti - a volte anche dieci - e a casa sua c'era addirittura un altarino dedicato ai suoi felini defunti con tanto di tavoletta funebre con il loro nome, come era prassi nella tradizione giapponese per ricordare i familiari passati all' altro mondo. E ancora: appena morì il suo amato gatto nero chiese al suo allievo Yoshimune di andare a chiamare il prete buddista affinché gli desse il nome postumo e celebrasse il funerale. Lui è Utagawa Kuniyoshi (1797-1861), uno degli ultimi e più interessanti artisti di ukiyoe (le xiilografie note in occidente anche come "stampe del mondo fluttuante") e pare che dipingesse con almeno un micino in grembo o infilato nel kimono.
Non stupisce quindi che gran parte della sua produzione artistica sia proprio dedicata agli adorati felini. Considerati un affascinante specchio dell'imprevedibilità della natura umana, erano loro ad offrirgli ispirazione per le sue opere e a personificare lo spirito tipico dell' abitante di Edo (oggi Tokio) della metà dell'Ottocento: spensierato e sempre alla ricerca di nuovi piaceri. Ecco allora i gatti che si trastullano nelle case da tè insieme a cortigiane micette dai sontuosi kimoni dai sontuosi, i gatti vestiti all' ultima moda che giocano a palla, gatti in relax nel centro benessere, gatti in amore. Ma anche gatti al lavoro come i portatori di lanterne con i loro tatuaggi o come samurai con la spada al fianco.

domenica 1 ottobre 2017

"Lettere dalla vagina", la mia intervista a Mona e Mae #FestivaldiInternazionale

Mona e Mae
Sembra assurdo, eppure ancora oggi le donne conoscono poco la propria sessualità con la terribile conseguenza che alcune di noi non sanno vivere il proprio corpo con consapevolezza e serenità. Assurdo e incredibile come, dopo anni e anni di discussioni e rivendicazioni, quanto poco se ne parli. Gli effetti sono catastrofici. Uno degli ultimi sondaggi sul tema, quello pubblicato recentemente sul Daily Mail, rivela che la maggioranza delle donne sia insoddisfatta della propria vita sessuale: una donna su 10 fa sesso al massimo una volta l’anno, mentre il 50% delle intervistate ha confessato di fare l’amore una volta al mese o anche meno. È un misero 10% poi che dichiara di avere rapporti sessuali almeno una volta a settimana. Soltanto il 17% infatti si dice invece appagata.
Percentuali frustranti che si giustificano - in parte - con la mancanza di conoscenza. Cosa alla quale hanno cercato di rimediare Mona Chalabi e Mae Ryan ideando e realizzando Vagina dispatches - Lettere dalla vagina, un documentario del Guardian in quattro puntate, che altro non è che un viaggio di esplorazione per rompere i tabù sul sesso femminile, parlando di anatomia, mestruazioni, orgasmo ed educazione sessuale. La serie ha riscosso un incredibile successo, tanto da essere nominata perfino ai premi Emmy 2017.

giovedì 21 settembre 2017

Gli Ambienti/Environments di Fontana: l'arte che anticipò il futuro

«Non ci può essere nessuna evoluzione in un'arte che utilizza ancora la pietra e il colore, ma sarà possibile fare una nuova arte con la luce, la televisione, la proiezione». Parole, queste di Lucio Fontana, che a rileggerle suonano come profetiche.
Era il 5 febbraio 1949 e, presso la Galleria del Naviglio a Milano, il padre dello Spazialismo, dei Tagli e dei Buchi creò Ambiente spaziale a luce nera: una serie di forme tridimensionali di cartapesta illuminate dalla luce violacea di Wood, fosforescenti e fluttuanti, appese al soffitto dello spazio espositivo completamente nero. L'opera, che venne mostrata per soli sei giorni e poi fu distrutta, suscitò scalpore e accese discussioni tanto che Fontana attese più di un decennio per realizzarne un'altra.

sabato 16 settembre 2017

“The ballad of sexual dependency", il diario-capolavoro di Nan Goldin #triennale



Nan Goldin e la sua Trixie

Aveva solo undici anni quando la sua adorata sorella Barbara si uccise sdraiandosi sui binari di una ferrovia nei pressi di Washington. Era il 12 aprile 1965, sconvolta scappò di casa diverse volte, e alla fine i genitori la diedero in affidamento. Fu una tragedia che la segnò profondamente e che contribuì a fare di Nan Goldin  la grande fotografa che tutto il mondo conosce e apprezza come una delle maggiori esponenti di quell'arte che punta all'identificazione completa con la propria vita.
«Ho iniziato a scattare foto per via del suicidio di mia sorella», dice la Goldin. «L'avevo persa. Era diventata un'ossessione, non volevo perdere mai più il ricordo di qualcuno». E così fu. Dopo aver studiato fotografia a Boston, si trasferì a New York documentando le serate, gli abusi, gli amori, le perdite, i dolori di cui i suoi amici e lei stessa erano protagonisti: un immenso album di famiglia, un diario visivo popolato da conoscenti e amanti, tossici, drag queen, donne pestate.

venerdì 1 settembre 2017

Kirby, il papà di Capitan America compie cent'anni

Sulla sua tomba, nel cimitero di Thousand Oaks, in California, sulla lapide c' è l' incisione di una corona. Eh sì, perché lui, Jack Kirby, al secolo Jacob Kurtzberg (New York, 28 agosto 1917 - New York, 6 febbraio 1994), è unanimemente considerato «the King», il re del fumetto.
Avete presente Capitan America, Hulk, gli Avengers, gli X-Men e i Fantastici Quattro? Sono tutte sue creature: la quantità di tavole prodotte e di personaggi che sono scaturiti dalla sua immensa fantasia e il suo stile inconfondibile che ha tracciato la strada per gli artisti che sono venuti dopo,  lo hanno reso il vero «King of Comics».

mercoledì 9 agosto 2017

Aiuto! Chi non ha un profilo social verrà giustiziato



Piazzale Flaminio, appena fuori le Mura Aureliane e a pochi metri da Piazza del Popolo, è uno dei punti nevralgici di Roma. Da lì passano i turisti diretti a Villa Borghese, alla Terrazza del Pincio, alla Chiesa di Santa Maria del Popolo e al famoso Tridente costituito da via del Corso, via di Ripetta e via del Babuino. Da lì i romani prendono la metropolitana e i bus che li portano in ogni dove. Ebbene, in questo crocevia, il 30 maggio 2095, si consumerà una terribile esecuzione di massa. Lo dice senza mezzi termini una targa commemorativa in alluminio inciso che fa bella mostra di sé da alcune settimane: «In questo luogo furono brutalmente giustiziati ventidue giovani rei di non possedere un profilo social, puniti come apolidi digitali», si legge.

mercoledì 12 luglio 2017

Manu Invisible: «Oltraggio civico è il cemento fine a se stesso. I graffiti sono gesto di presenza umana e civiltà»


È stato denunciato, ha subìto diversi processi  fino a che la Corte di Cassazione lo ha prosciolto definitivamente da ogni accusa sostenendo che i suoi graffiti non sono “imbrattamento”, ma arte. E reputato uno dei più significativi writers italiani, è volato a Londra, chiamato dall'agenzia inglese Global Street Art che lo ha scelto per un intervento a Camden Town in vista dell'uscita ufficiale dell'Inghilterra dall’Unione Europea, per realizzare su una superficie di 90metri quadri il suo “Influence”. Un’opera che rappresenta la condizione politica dell'Europa che in questo periodo di grandi cambiamenti, è appunto “influenzata”  in modo incessante. Lui è Manu Invisible, lo street artist senza volto che da oltre quindici anni lascia le sue opere sui muri di mezza Europa. Con il suo vestito nero sporco di pittura e la maschera nero lucido dalle forme taglienti, ispirata alla geometria e alla notte non si ferma mai.

giovedì 22 giugno 2017

La svolta Lgbtq del Museo Prado

Un neonato accudito amorevolmente da quelli che sembrano due papà. No, non è il manifesto di qualche associazione arcobaleno. È un dipinto del 1631 di José De Ribera nel quale è ritratta una famiglia dell'epoca: c'è Maddalena Ventura - dalla corporatura massiccia e con il volto dai lineamenti maschili completamente ricoperto di barba - il marito e suo figlio che viene allattato al seno. Solo da questo particolare, una bella mammella nuda e turgida (oltre che dai tipici utensili di uso domestico come il fuso, l'arcolaio e la lana poggiati sui blocchi di pietra sulla destra) si capisce che è una donna.
Lo stesso può dirsi de La barbuda de Peñaranda di Juan Sanchez Cotán. L'artista, nel 1590, ha rappresentato una persona con una folta barba e una calvizie avanzata. Sembra un uomo, e invece si tratta di tal Brigida del Río, una cinquantenne che finì tra le Emblemas morales (1610) di Sebastián de Covarrubias: «Sono maschio, sono donna, sono un terzo / che non è uno, né un altro, né è chiaro \. Mi ritengono sinistro e male presagio / noti ognuno che mi ha guardato / che è altro io, se vive effeminato», scriveva a proposito di Brigida.
Nelle due signore barbute ci si imbatte percorrendo l'inedito percorso organizzato dal Museo Prado di Madrid nella sua collezione permanente in occasione del Word Pride, che si festeggia in Spagna da domani: trenta capolavori che obbligano i visitatori a guardare con altri occhi e a "normalizzare" le identità sessuali meno convenzionali.

domenica 18 giugno 2017

Quanto horror nei quadri di Hopper!



Room in NY (1936)
Una signora sola in un bar. Il diner più famoso d'America, con la sua vetrata piena di luce contro il buio della notte. Una sigaretta fumata di fronte a una finestra aperta, lasciando che il sole penetri nelle ossa. Una coppia separata da una noia invincibile. Un cinema mezzo vuoto dove una donna aspetta l'uomo che ama. Sono tutte descrizioni di celebri dipinti di Edward Hopper, uno dei più conosciuti pittori del '900 che con apparente semplicità di linee e colori ha saputo raccontare il lato oscuro del sogno americano. Opere caratterizzate da un sofisticato gioco di luci fredde, taglienti, volutamente artificiali, e dalla drammatica incomunicabilità tra i soggetti rappresentati. La direzione dei loro sguardi e i loro atteggiamenti narrano qualcosa che lo spettatore non vede. Scene silenziose, capaci però di evocare spunti per immaginare storie.

venerdì 2 giugno 2017

Da Duchamp a Cattelan: l'arte nel cesso

L'arte contemporanea travolge anche Cannes. La Palma d'oro del festival è stata assegnata infatti al provocatorio The square del regista svedese Ruben Östlund: un film che fa il ritratto della società in cui viviamo, con tutte le ingiustizie e le contraddizioni del nostro mondo (c'è la forbice socio-economica che taglia in due le fasce della popolazione, c'è la cialtroneria e l'immaturità della classe dirigente) attraverso la storia di Christian, il curatore di un museo di arte contemporanea, un uomo generoso solo quando ha il proprio tornaconto o quando gli gira bene, che predica bene e razzola male, alle prese con le sue idee creative nel segno dell' evento, della sorpresa.

domenica 14 maggio 2017

Dal Padiglione Usa il manifesto degli artisti anti-Trump #BiennaleVenezia2017

Mark Bradford & me
Un appello a resistere all’amministrazione Trump, a non rimanere in periferia: dalla Biennale di Venezia, il padiglione statunitense è un manifesto dell’artista californiano Mark Bradford (nella foto mentre chiacchiera con me) contro il nuovo presidente degli Stati Uniti.
Bradford, nato a Los Angeles nel 1961, è stato scelto quest’anno per rappresentare l’arte contemporanea del suo Paese nella 57esima edizione dell'Esposizione internazionale d'arte prima della vittoria del magnate newyorkese nel voto dell’8 novembre. «È stato come se ci mancasse la terra sotto i piedi», racconta dinanzi alla bandiera del suo Paese. Inevitabile non parlare di questo «scossone» nel suo lavoro di artista, anche se ammette che «bisogna accettare l’instabilità: è una tale novità che un artista deve accettare questa specie di crollo, questa sorpresa. E dunque, a suo giudizio, l’artista «non deve rimanere in periferia» rispetto alla nuova amministrazione. «Credo che gli artisti e le persone progressiste debbano fare più di quello che fanno».

Cristi, miraggi e tarocchi: il padiglione Italia è il più bello della Biennale

Giorgio Andreotta Calò
«Sublime è tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore», scriveva nel 1757 Edmund Burke nel suo A Philosophical Inquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful. Per il filosofo irlandese la grandezza in senso spirituale, intellettuale, estetico è suscitata nell' umano sentire da tutto ciò che risulta essere indeterminato, i cui limiti sfuggono alle nostre capacità di rappresentazione e da tutto ciò che risulta essere oscuro o disarmonico. Ecco allora che non si fa fatica a definire «sublime» il padiglione italiano della 57esima edizione della Biennale di Venezia firmato da Cecilia Alemani. Il buio, l' inquietudine, il misticismo accompagnano il visitatore in tutti e duemila metri quadri dello spazio all'Arsenale fino alla fine del percorso che sfocia nel giardino delle Vergini.
Roberto Cuoghi

sabato 13 maggio 2017

Viva l'arte viva! Soprattutto quando celebra l'ozio #BIENNALEVENEZIA2017


Dawn Kasper
Viva l'arte viva! Soprattutto quando celebra il dolce far niente erede dell'otium romano e della scholè grega: un momento privilegiato, oggi tradotto nel senso peggiore con la parola pigrizia e associato al vizio – opposto al mondo degli affari o negotium (cui comunque l'artista non sfugge) che glorifica il tempo libero, i momenti di inoperosità, l'inerzia. 
In un mondo che va di fretta, scosso da conflitti sociali e dalla guerra, lo storico Padiglione Centrale (ex Padiglione Italia) ai Giardini di Venezia per la 57esima edizione della Biennale si trasforma in un tributo alla pigrizia. Quella che anche Joseph Conrad aveva difficoltà a far comprendere: “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”. Di certo c'è che vedere un'artista profondamente addormentata mentre le passano accanto flotte di persone, mentre i flash delle macchine fotografiche e le telecamere la immortalano lascia spiazzati.E pure parecchio invidiosi: sarebbe bellissimo potersi sdraiare accanto a lei dopo aver camminato tutto il giorno alla scoperta di qualche cosa di interessante tra i padiglioni dei Giardini e dell'Arsenale carichi di cartelle stampa, cataloghi e borse varie. 

martedì 9 maggio 2017

Trasgressioni, lotte e libertà: la Rai degli anni Settanta vista da Francesco Vezzoli

Il 9 maggio 1978, in via delle Botteghe Oscure a Roma, viene ritrovato il corpo di Aldo Moro. Il 9 maggio 2017 la Fondazione Prada inaugura a Milano Tv70. Francesco Vezzoli guarda la Rai, un viaggio nella televisione pubblica italiana in quel decennio di trasgressione, lotte e libertà: ma anche dei tg che raccontavano le stragi, il terrorismo, i morti di Stato. «A questo non avevo pensato, ma devo dire che mi fa piacere, perché è il ricordo più intenso e insieme drammatico della mia infanzia», dice l’artista quando gli faccio notare la coincidenza delle date.

mercoledì 3 maggio 2017

Hockney, il potere delle immagini dalle caverne all'Ipad



Compie ottant’anni a luglio e crea opere d’arte usando l’iPad. David Hockney oltre a essere tra i massimi esponenti dell'avanguardia anglosassone negli anni '60 del secolo scorso, è uno degli artisti più popolari nel Regno Unito (il 17 novembre scorso Sotheby's ha battuto la sua opera «Woldgate Woods, 24, 25 and 26 October 2006» a 11,7 milioni di dollari)  e alla Tate Britain di Londra è in corso la più vasta retrospettiva che gli sia stata mai dedicata sinora. Organizzata con il Centre Pompidou di Parigi e il Met di New York, la mostra riunisce i suoi lavori più significativi: dai primi «Love Painting» (1960-61) con i quali ha sovvertito il linguaggio dell'Espressionismo astratto in un'autobiografia omoerotica,  alle opere realizzate dopo il suo ritorno in California nel 2013 compresi i ritratti di familiari, amici e di se stesso, come  «Self Portrait with Blue Guitar» 1977;  le sue iconiche immagini piscine di Los Angeles e ovviamente le opere realizzate con l’app “Brushes” sul suo iPad che gli ha permesso, a suo dire, di risolvere il problema della luce mutevole.   

giovedì 13 aprile 2017

Il Leone d'oro della 57a Biennale alla femminista Carolee Schneemann

"Interior Scroll" 1975
Carolee Schneemann è una delle figure più importanti nell’ambito dello sviluppo della Performance e Body Art. Conosciuta per il suo lavoro sulla sessualità, ha utilizzato il proprio corpo come materia principale della propria arte che si caratterizza per la ricerca nella tradizione visiva riguardante i taboo e il corpo dell'individuo in relazione con i corpi sociali. A lei verrà assegnato il Leone d’Oro alla Carriera della 57. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia – VIVA ARTE VIVA. La decisione è stata presa dal Cda della Biennale presieduto da Paolo Baratta, su proposta della curatrice della 57ma Biennale, Christine Macel. «Carolee Schneeman è una delle figure più importanti nell’ambito dello sviluppo della Performance e Body Art. È una pioniera della performance femminista dei primi anni ’60 e ha utilizzato il proprio corpo come materia principale della propria arte. Così facendo l’artista concepisce la donna sia come creatrice sia come parte attiva della creazione stessa», ha motivato la scelta Christine Macel.

venerdì 7 aprile 2017

Niente cadaveri, Hirst mette in mostra il tesoro del liberto

La tuffatrice
C'è chi lo ritiene il più grande artista contemporaneo ed è disposto a pagare milioni per portarsi a casa una sua opera e chi lo odia considerandolo solo il prodotto di un'abile strategia di marketing o un sadico che usa i cadaveri degli animali. Di certo c'è che Damien Hirst spiazzando chi già gli avevano preparato la "festa", ha lasciato tutti a bocca aperta anche stavolta con la sua opera Treasures from the Wreck of the Unbelievable (GUARDA LE FOTO). Un progetto complesso e ambizioso tenuto sotto segreto istruttorio al quale l'artista inglese ha lavorato oltre 10 anni e che è stato presentato ieri (6 aprile 2017) a Venezia, in anteprima mondiale, nelle due sedi espositive della Pinault Collection: Punta della Dogana e Palazzo Grassi. Si tratta di un gioco? Di una caccia al tesoro? O è solo un sogno?

domenica 2 aprile 2017

Fuori Salone aspettando la "Maestà Tradita"

Maestà Tradita, Gaetano Pesce
C'è da perderci la testa. Da lunedì scorso, quando a Palazzo Reale la mostra "Codice di Avviamento Fantastico" ha dato il via all'Art Week, a Milano è un susseguirsi di conferenze stampa, vernissage, incontri, party. La città è frenetica, elettrizzata e coinvolge anche coloro che con l'arte non hanno nulla a che fare: in ogni quartiere, in centro e in periferia, nei palazzi istituzionali, nei musei, nelle gallerie, nei loft privati, nei cortili delle università e perfino nei refettori dei conventi ci sono migliaia di manifestazioni che richiamano artisti, galleristi, curatori e collezionisti ma anche semplici curiosi o amanti della mondanità costringendo i giornalisti a sdoppiarsi, triplicarsi per raccontare tutto o quasi. Il clou verrà raggiunto martedì quando in contemporanea inaugurerà nell'area fieristica di Rho-Pero il 56° Salone Internazionale del Mobile per il quale sono attesi 300.000 visitatori provenienti da più di 165 Paesi, e gli oltre mille eventi del "Fuori Salone". Praticamente impossibile vedere e partecipare a tutti senza avere il dono dell'ubiquità, ma ci sono appuntamenti che non si possono assolutamente perdere, anche perché è facile imbattercisi anche solo passeggiando in città.

martedì 28 marzo 2017

Codice di Avviamento Fantastico: ecco come ti rivoluziono gli appartamenti del principe

Nanda Vigo e la sua astronave
Un'astronave è precipitata a Palazzo Reale. La navicella spaziale, luminosa, colorata, ricoperta di Alcantara è rimasta "incastrata" tra le pareti di una delle stanze dell'Appartamento del Principe aprendo un varco verso un nuovo mondo, un giardino alieno dove zampilla una fontana di luce. È l'ouverture della mostra "Codice di avviamento fantastico" - aperta gratuitamente a Palazzo Reale fino al 30 aprile - affidata alla designer Nanda Vigo: un intervento che destabilizza e introduce in un percorso costruito come una successione di "camere delle meraviglie", che fa rivivere l'Appartamento del Principe, solitamente chiuso, come un infinito serbatoio di ispirazioni.

Aki Kondo e il suo Eden

venerdì 24 marzo 2017

Ma dai! Casanova, femminista ante litteram

Casanova (Milo Manara)
Chi l'avrebbe mai detto! Giacomo Casanova avventuriero, scrittore, massone, spia al servizio della Serenissima,  fu un femminista ante litteram. Lo dimostra il saggio pubblicato nel 1772 a Bologna nel quale il seduttore si inserisce in un dibattito tra due medici sulle differenze tra i sessi contestando vigorosamente l'idea della subordinazione della volontà femminile ai capricci uterini. Casanova beffeggia Petronio Ignazio Zacchini e Germano Azzoguidi che avevano pubblicato appena due libri sulle differenze psicologiche e fisiologiche della donna rispetto all'uomo sostenendo che le prime sono vittime del "furore uterino" ovvero ragionano con l'utero. «Un problema di lana caprina», definisce la discussione Casanova sostenendo che anche certi maschi manifestano gli stessi disturbi come le donne. E "Lana caprina" è il titolo del prezioso libro (sono in circolazione solo 15 esemplari dei 500 stampati) che la Libreria Antiquaria Drogheria 28 di Trieste presenterà alla Mostra Internazionale Libri Antichi e di Pregio che inaugura oggi (24 marzo 2017) al Salone dei Tessuti, in via San Gregorio 29.

martedì 21 marzo 2017

«È morto Pollock! Sono io il più grande»

Primi anni Cinquanta. Seduti sul marciapiede davanti a un bar del Greenwich Village di New York, due artisti visibilmente ubriachi, bevono dalla stessa bottiglia. Si scambiano ad alta voce complimenti del tipo: «Sei tu il più grande pittore d’America», diceva uno. «No, no sei tu il più grande pittore d’America», risponde l’altro.  Il teatrino va avanti fino a quando uno dei due perde i sensi.  Era Jackson Pollock . L’altro era Willem de Kooning
Erano amici. Ma per loro la “grandezza” era un’autentica ossessione, era la lotta per trovare un posto di rilievo sul mercato, per chi riusciva a spingersi più in là nella sperimentazione artistica. Così, benché si stimassero e nutrissero sentimenti di affetto, erano “rivali”. Successe che Pollock, rispetto all’immigrato De Kooning, venne usato dal potere come prova del vero talento americano rispetto ai geni soffocati dalla censura del blocco sovietico; successe che De Kooning – che non riusciva a trovare una netta separazione tra linguaggio astratto e figurativo -  fosse  geloso del fatto che Pollock era diventato famoso facendo sgocciolare dal pennello che muoveva in aria disegnando nello spazio vuoto la vernice sulla tela appoggiata sul pavimento.  Pollock lo derideva e De Kooning soffriva.  Alla fine, quando nel 1956 Jackson guidando ubriaco perse il controllo della sua Oldsmobile, si schiantò contro due alberi e morì sul colpo, De Kooning esclamò: «È morto. È finita. Sono io il numero uno».  A meno di un anno dal funerale, De Kooning iniziò una relazione con la ragazza dell’amico-nemico, l’unica sopravvissuta a quell’incidente, e ne fece la sua compagna di vita.

mercoledì 15 marzo 2017

Chinamen, un secolo di cinesi a Milano

Correva l'anno 1906. A Milano era in corso l'Esposizione Universale e in città arrivarono i primi mercanti cinesi. Provenivano dal distretto di Qing Tian nella regione Zhejiang e vendevano statuette di simil giada e collane che sembravano di perle ma che perle non erano. I milanesi le chiamavano "perle matte". Presero delle stanze in una locanda di via Canonica al civico 35, vicino alla fiera. Quel ristretto gruppo di intrepidi commercianti (si contavano sulle dita di una mano) fece da apripista al flusso migratorio del 1926 costituendo il nucleo della grande comunità cinese in città.

lunedì 13 marzo 2017

I biglietti dell'Atm diventano opere d'arte

Dai collage di Picasso alle accumulazioni di stracci di Pistoletto passando per gli assemblaggi di Man Ray, i ready made di Duchamp, i sacchi di Burri, i combine painting di Rauschenberg, le raccolte di Arman: i rifiuti trovano una seconda vita nell' arte. E rifiuti sono anche i biglietti del bus e del metrò che i viaggiatori, dopo averli usati, gettano per strada, senza rendersi conto che quel gesto contribuisce al degrado della città. Recuperarli, farli sopravvivere al nulla, alla dissoluzione cui sono destinati lasciando una traccia, un indizio della storia che c' è dietro, è l' obiettivo dell'artista Roberto Sironi che ha appena inaugurato la mostra "Un biglietto del tram".

sabato 11 marzo 2017

Follia e creatività. Nella storia dell'arte così come nella vita

Il cassetto di Alda Merini
«Entrate, ma non cercate un percorso. L’unica via è lo smarrimento», è la scritta che accoglie i visitatori del Museo della Follia inaugurato ieri a Salò. La attribuiscono al curatore Vittorio Sgarbi, ma lui stesso smentisce. «L’ho fatta mia, ma l’ha inventata la mia collaboratrice Sara Pallavicini», ha ammesso mentre presenta il Museo. Che non è un museo, ma una mostra itinerante che affronta il complesso tema della follia e che volutamente nasconde più di quanto esponga. «È tutto un inganno», ha fatto notare Sgarbi. Già l’inganno. Lo stesso che ha tenuto rinchiuse dentro i manicomi persone non classificabili, non omologabili, che rifiutavano di sottostare alle regole imposte dalla società. A loro è dedicata l’esposizione.  Ecco allora le streghe esemplificate da un dipinto di Tranquillo da Cremona (1837–1878), donne perseguitate solo perché non volevano sposarsi o fare figli; gli omosessuali rappresentati da due opere e alcuni disegni che Francis Bacon regalò all’uomo dei suoi desideri; i perseguitati politici che, ha spiegato Giordano Bruno Guerri, direttore del MuSa, «venivano ricoverati all’interno dei manicomi perché era la maniera più semplice per renderli inoffensivi, per neutralizzarli, evitando processi che avrebbero messo in luce la loro innocenza»; i poeti sognatori e visionari come Alda Merini presente in apertura di mostra con il suo cassetto pieno di sigarette, una collana di perle, biancheria intima, un rossetto, un taccuino, una penna.
L'olio di Adolf Hitler

sabato 4 marzo 2017

Non è facile sentirsi clandestino a 20 anni. Non lo è mai

Asleei viene dal Marocco. E non so scrivere il suo nome.
Asleei è partito a 17 anni, spagna, francia, italia, 
Avrà vent'anni ora.
Il sabato sera lo passa in una panchina del parco. Sorride e ammette che avrebbe voluto fare festa. Come tutti i  ventenni aggiungo io.
Sorride, e mi racconta del suo sabato sera, una caccola di fumo, due cartine mezza sigaretta, ed un vecchio cellulare che suona una canzone, mentre lo schermo rotto mostra un video.
Un rap melodico arabo italiano di “mamma” e “clandestino” parole ripetute che svelano il dolore negli occhi di chi le ascolta.
Non è facile sentirsi clandestino a vent'anni, o a  dieci o a novanta, non lo è mai.. Ma questo non oscura il suo sorriso.
Partito perché i politici in Marocco rubano e noi non abbiamo soldi, mi racconta.
Rubano anche qui gli racconto.
Mi guarda, sorride, e fa si con la testa. Tutti uguali mi dice.
Tutti uguali gli dico.
Ci salutiamo, ognuno per la sua strada.
Lo ringrazio per la compagnia, mi ringrazia per l'amicizia.
Cerco le parole per fargli un augurio che non sia un buona fortuna.
Perché so bene che non è una questione di fortuna, ma di ben precise responsabilità.
L'abbraccio mi volto, abbasso lo sguardo e vado via.
Rabbia e vergogna  tornano a casa con me.

(dnA)

venerdì 3 marzo 2017

Il Rinascimento elettronico di Bill Viola

Entrare in un ambiente ed essere investiti da immagini in movimento, suoni, luci e colori; sentire il cuore che accelera, provare emozioni che producono turbamento o stupore, veder affiorare ricordi e scoprire nuovi punti di vista. È la videoarte, signori: l’opera esce dagli schemi tradizionali e diventa situazione, azione, ricerca di nuovi e diversi processi della comunicazione estetica relazionandosi con il cinema, con la musica, con la scultura o la pittura o l’ambientazione.  Maestro di questo linguaggio artistico è Bill Viola che da oltre trenta anni con l’uso delle tecnologie più avanzate crea videoinstallazioni architettoniche, ambienti totali che avvolgono la visione nell’immagine e nel suono. Reinterpretando anche capolavori presi in prestito dalla storia dell’arte, le sue opere sono meditazioni sull’essere umano, sulla barriera illusoria che separa la nascita dalla morte.

lunedì 20 febbraio 2017

Il linguaggio universale dell'arte negli omini di Keith Haring

A Pisa, la parete esterna della canonica della chiesa di Sant’Antonio è completamente decorata con un murale, il più grande mai realizzato in Europa. Su 180 metri quadri (10metri di altezza per 18 metri di larghezza) il maestro indiscusso della graffiti art Keith Haring nel giugno del 1989, insieme a studenti, artigiani e perfino i frati del convento, realizzò Tuttomondo: trenta monumentali figure incastrate tra loro che invadono tutto il muro senza finestre con l’unico scopo di simboleggiare la pace e l’armonia del mondo. C’è un cane che abbaia, un bambino carponi, un uomo che corre sulle scale e un altro, giallo, che cammina e che potrebbe essere lo stesso Haring, ma c’è anche la “croce pisana” realizzata da quattro figure umane unite all’altezza della vita; un uomo che sorregge sulle spalle un delfino, una scimmia e un volatile. E ancora: ci sono le forbici rappresentate come l’unione di due figure umane che tagliano in due un serpente; c’è una donna con in braccio un bambino e un uomo con un televisore al posto della testa simbolo del contrasto tra la naturalità della vita e la tecnologia che ne stravolge i ritmi.

sabato 18 febbraio 2017

Al BarLume il mio libro "Le bombe di Roma"

Chi mi conosce sa quando mi senta in imbarazzo a parlare in pubblico: non lo so fare, non mi sento a mio agio, mi impappino. Domani (19 febbraio) però, grazie al grande affetto che ho per Roberto Dossena e Sara Identici, supererò tutte le mie paure e presenterò il mio libro "Le bombe di Roma" nel loro locale, il BarLume. Per chi non si volesse perdere l'occasione di vedermi diventare rossa, per chi volesse conoscermi o conoscere la storia inedita del 12 dicembre capitolino,  per chi volesse scoprire questo delizioso bar, l'appuntamento è in via Via G. Cabrini 7, Sabbioni Crema, alle ore 18.

Ecco più o meno quello che racconterò.
Il 12 dicembre 1969, mentre a Milano si consumava la strage di piazza Fontana, tre bombe scossero la Capitale. Tre ordigni piazzati sull’Altare della Patria e all’interno della Banca Nazionale del Lavoro di via Veneto scoppiarono nelle stesse ore seminando il panico nel centro di Roma. Stesso tipo di esplosivo, stesse dinamiche, stessa vana ricerca degli autori materiali: solo per circostanze fortuite non ci furono vittime, ma gli attentati romani furono altrettanto significativi in quella che fu la strategia delle stragi di Stato. Significativi, ma finora poco conosciuti e studiati.

giovedì 16 febbraio 2017

A proposito di Lavagna, la testimonianza di un papà

Ho ricevuto questa riflessione a proposito della tragedia di Lavagna (dove un sedicenne si è ucciso dopo che la Finanza, chiamata dalla madre, in un blitz nella sua scuola gli aveva trovato addosso qualche grammo di fumo). L'ha scritta un papà e ve la propongo. 

Sono giorni che i fatti di Lavagna mi rimbombano in testa. E più ne leggo più l'esigenza di dire qualcosa cresce.
Essere genitore è una delle cose più difficili da fare. E te ne rendi conto solo quando lo diventi.
Un susseguirsi di decisioni da prendere "per il suo bene", o almeno così ci raccontiamo noi genitori. Decisioni non sempre giuste, non sempre facili, non sempre condivise dalla controparte, i nostri figli. Decisioni che comunque vanno prese, anche se la notte poi non ci dormi.

giovedì 9 febbraio 2017

Pittura, fotografia, scultura, performance: le connessioni invisibili di Mambor

«Se volete capire davvero l'uomo e l'artista Renato Mambor dovete partire dalle ultime opere», consiglia Patrizia Speciale a chi si accinge a visitare la mostra dedicata al suo compagno scomparso all'età di 78 anni nel 2014 appena inaugurata al Palazzo delle Stelline. E proprio una delle ultime opere di Mambor, peraltro inedita, apre la rassegna: un'installazione-autoritratto di cinque ieratiche sagome bianche che portano al posto del cuore, su piccole mensole, cuori in materiali diversi (cuoio, ceramica) e un metronomo: opera al tempo stesso metafisica e gioiosa, che ribadisce l'ardente desiderio dell'artista di non lasciare mai spazio alla disillusione e al cinismo, costituendo sempre con i propri lavori  «una fonte di ricerca della conoscenza». Il titolo è “Re di cuore”, quel cuore che lo aveva “tradito” nel 1987 costringendolo ad un importante intervento chirurgico e che con il suo ritmo «porta l'universo dentro di noi» segna l'inizio, ma anche la conclusione della retrospettiva "Connessioni invisibili" che racconta 55 anni di impegno artistico durante i quali Mambor  ha rinnovato instancabilmente le forme e approfondito la conoscenza di sé inventando dispositivi di comunicazione che coinvolgessero lo spettatore lasciando opere di grande valore e significato.

lunedì 6 febbraio 2017

Lavoro in movimento: mutamenti, contraddizioni, alienazione

Monte Bettogli, Carrara: nelle cave di marmo uomini e macchine scavano la montagna. Il Capo controlla, coordina e conduce cavatori e mezzi pesanti utilizzando un linguaggio fatto di gesti e di segni. Dirigendo la sua orchestra pericolosa e sublime, affacciata sugli strapiombi delle Apuane, il Capo agisce in un rumore assoluto, che incredibilmente diventa silenzio. Quindici minuti di girato firmato da Yuri Ancarani che nel 2010, con un lavoro a metà strada tra il cinema documentario e l’arte contemporanea, ha voluto raccontare le “zone” meno visibili della vita quotidiana. Il video, chiamato Il Capo, insieme a Piattaforma Luna (che in 25 minuti racconta il lavoro di sei sommozzatori impegnati a 100 metri di profondità in una camera iperbarica) e a Da Vinci (realizzato in un dipartimento di chirurgia robotica dove un medico esegue un’intera operazione comandando i bracci di un robot tramite un joystick) sono presentati,insieme ai filmati e alle installazioni di altri tredici artisti di fama internazionale, fino al 17 aprile al Mast di Bologna nella mostra Lavoro in movimento. 

mercoledì 25 gennaio 2017

Come capire se una città è davvero bella

C'è Milano e non Roma; c'è Voghera e non Venezia. Ci sono Cosenza, Mosca, Bruxelles e non ci sono Siena, Barcellona o San Francisco. Marco Romano - professore di Estetica in diversi atenei, membro del Consiglio superiore del ministero dei Beni Culturali, nonché direttore della rivista Urbanistica - nel suo ultimo libro "Le belle città" ne ha selezionate cinquanta considerandole opere d'arte a tutti gli effetti. Il criterio di questa scelta - che a primo acchito parrebbe azzardata - parte dal fatto che le città, tutte le città, sono l'esito di una riconoscibile intenzione estetica. Per afferrarla, non basta disporsi in contemplazione delle carte antiche o dei palazzi come davanti a un quadro, occorre invece praticare l'arte di camminare passo passo e soprattutto di vedere - non guardare soltanto - ogni strada e ogni piazza. La guida turistica chiusa nello zaino, lo sguardo verso l'alto, il viaggiatore dovrà farsi condurre dalle sue sensazioni, da ciò che attrae il suo occhio. Un occhio che, come spiega Marco Romano, va nutrito con la curiosità e allenato con lo studio, perché l'estetica della città è una disciplina consolidata e rigorosa, che non differisce in niente dalla valutazione di qualsiasi opera in ogni altro campo della critica d'arte.

mercoledì 18 gennaio 2017

Berenice Abbott, da assistente di Man Ray a maestra della fotografia contemporanea

Libera e spregiudicata in un'epoca ancora lontana dall'accettare l'omosessualità femminile; geniale dietro la macchina fotografica mentre realizzava ritratti; attenta quando documentava le trasformazioni di New York in seguito alla grande depressione del '29; pioniera nella ricerca sulla fotografia da laboratorio. Lei è Berenice Abbott, una delle più controverse protagoniste della storia fotografica del Novecento.

lunedì 16 gennaio 2017

Marina Abramovic, nostra signora della performance (l'autobiografia)

Ha dedicato il suo libro «ad amici e nemici» perché secondo lei sono intercambiabili. Negli anni Settanta, all'inizio della carriera, la accusavano di andare contro le convenzioni, oggi di far parte del mainstream. Lei è  Marina Abramović, settant'anni festeggiati il 30 novembre scorso al Guggenheim Museum, pioniera della body art, che ha appena pubblicato per Bompiani (a cura di James Kaplan, pp. 414, euro 19) la sua autobiografia: la storia di una donna ribelle e sensuale, educata nella Jugoslavia comunista (è nata a Belgrado nel 1946) da due partigiani, eroi di guerra, secondo modelli rigidissimi per prepararla ad “Attraversare i muri”, come recita il titolo del libro. Una donna che ha amato e sofferto molto; che ha ottenuto i massimi riconoscimenti vivendo una vita senza compromessi al prezzo di una estrema povertà e isolamento. Una donna che a 14 anni giocava alla roulette russa con la pistola carica di suo padre e che, disperata per i tradimenti del suo compagno di vita e di arte Ulay, ha accettato di far l'amore a tre con la sua amante, soffrendone da morire.


sabato 14 gennaio 2017

Gillo Dorfles, 106 anni un'altra mostra. E un regalo per me



A centosei anni Gillo Dorfles inaugura in Triennale la sua ultima mostra. Alle 11 in punto, il 12 gennaio scorso,   era già a Palazzo dell’Arte a Milano, mentre gli addetti all’allestimento montavano gli ultimi pezzi in vista del vernissage della sera. «Sono molto soddisfatto dell'allestimento. Non potevo chiedere di meglio. La parete arancione poi... Bella», commenta mentre passa in rassegna le sue creazioni. Lui - maestro dell’Estetica italiana, critico d’arte, pittore e filosofo - espone per la prima volta i disegni dedicati a “Vitriol”, un personaggio da lui inventato nel 2010: una figura senza forme, inquietante e enigmatica, dagli occhi accesi, penetranti, ipnotici che scrutano e incantano chi guarda. In mezzo, attorno, sopra ci sono citazioni in tedesco, oltre a diverse parole e numeri che sembrano codici da decifrare.