mercoledì 21 agosto 2013

Алессио Лега per Bulat Okudžava a casa sua 24 agosto 2013

di Alessio Lega
Una notizia magari insignificante per il mainstream imperante, ma commovente per me. Il prossimo 24 agosto sono stato invitato a cantare nell'annuale "Festa della campanella" che il museo Bulat Okudžava organizza in memoria di questo immenso poeta della canzone, in quella che fu la sua dacia, a Peredelkino (a 25 km da Mosca).
Ancor meno conosciuto per noi che il suo "allievo spirituale" Vladimir Vysotskij, Okudžava è uno dei più grandi poeti russi del '900, uno dei fari di questo nostro mestiere fatto di resistenza quanto di talento. Nel 1985 il Premio Tenco gli conferì il suo massimo riconoscimento, invitandolo a cantare a Sanremo: fu un grande atto di coraggio - non erano ancora gli anni della Perestrojka - e i presenti ne conservano una memoria incantata.

Suonare in quest'occasione è per me una cosa naturale e che mi fa venire i brividi al contempo.
Ho inserito nei miei dischi due versioni italiane delle sue canzoni ("Canzone dei pirati" in "Zollette" e "Tre sorelle" in "Compagnia cantante"), ma spero nei prossimi anni di riuscire a fare molto di più, in questo aiutato anche da Giulia de Florio che è stata la mia "ambasciatrice" presso gli eredi di Okudžava e alla quale devo quest'occasione.

Ecco un articolo di Alessio Lega apparso parecchi anni fa su "A rivista anarchica"

Canzoncina d’amore senza pretese per Bulat Okudzava.
A quella mummia mostruosa di Leonid Breznev si attribuiscela seguente frase L’aria di Mosca sarà più respirabile quando Okudzava e Vysotskij non la respireranno più.
Questi due nomi tutto sommato in occidente ben poco noti,contro cui si ergeva la censura sovietica, a chi mai saranno appartenuti?
A pericolosi deviazionisti? A sionisti borghesi? A rinnegatititoisti? A torbidi borghesi decadenti? A spioni trozko-bucharinisti?
No signori! Nulla di così innocuo!
Faceva bene il Politburo a infierire e a mettere in guardiai sani virgulti della gioventù socialista... perché i due appartenevano allacategoria di persone più pericolosa per qualsiasi tirannia: Bulat Okudzava eVladimir Vysotskij erano duepoeti.
Peggio! Due grandi poeti, popolarissimi e armati dichitarra. Incoercibili alle ragioni dello stato, perfettamente allineati aquelle dell’arte.
Bulat Sandovic Okudzava (1924-1996), poeta dei mezzi toni,dell’ironia, della dolcezza, della comprensione ha alle spalle la tragediadella rivoluzione e della guerra!
Suo padre, attivista importante del PCUS, rivoluzionariodella prima ora, cadrà vittima di una delle tante purghe: fucilato negli anni'30. Ahi guerra che hai fatto vigliacca!
Sua madre, militante anch'essa, appena più fortunata, berràl’acqua congelata del Gulag per 19 anni. Ahiguerra che hai fatto vigliacca!
Altri nove fra i suoi parenti furono fucilati e poi tuttiriconosciuti innocenti.
Bulat, appena diciassettenne, allevato nel culto della personalitàstaliniano, correrà ad arruolarsi volontario per difendere il suolo patriodalla minaccia nazista e sarà immediatamente e più volte ferito. Come dice inuna sua poesia:
Ah, guerrache hai fatto vigliacca!
I nostricortili sono divenuti silenziosi.
I nostribambini alzavano la testa,
Diventavanograndi prima del tempo.
Sifacevano appena vedere sulla via
Epartivano: soldati, soldati...
Arrivederci,ragazzi! Ragazzi,
Cercate ditornare indietro! (...)
 Ah guerrache hai fatto vigliacca!
Al posto dinozze – distacchi e fumo.
Le nostreragazze hanno donato
Gli abitibianchi alle sorelline. (...)


Come una caduta sulla via di Damasco, la ferita apre a Bulatgli occhi. Occhi molto particolari: caustici e irridenti col potere, conl’ingordigia, con la superbia; dolci e comprensivi con l’umanità fraterna esofferente.
Proprio l’esperienza terribile della guerra detterà alcunidei più bei versi mai cantati al nostro, che continuerà a inseguire questo temaper tutta la vita: Canzone degli scarponimilitari, Lenka Korolev, Il soldatino di carta, Il giovane ussaro... e tanti altri cantiche compongono uno stupendo poema, antimilitarista per sentimento più che perideologia.
Nella poesia di Okudzava non vi è mai alcun teorema dadimostrare, così che il sacro orrore della guerra gli nasce dalla profondaantiumanità di quest’ultima.
L’esperienza personale detta a Bulat immagini tanto semplici quanto strazianti.
Non credere alla guerra ragazzo
La guerra è stretta come le scarpe.

Parole troppo familiari? Poco adeguate all’immensità della tragedia?
Io ricordo che Petrolini diceva che l’unico modo diconoscere il significato della parola felicità era comprare un paio di scarpestrette... e poi togliersele!
L’ironia: Okudzava la maneggia come nessun altro, e la sua ironiaè solo sua, giacché spinge sempre a una profonda pietas, che anziché far riderediventa due volte più commovente. Non è il cinico sarcasmo del blasé che da una cima di disprezzosogguarda il mondo, è la forma d’amore piuttosto di un uomo tanto sensibile daconfessarsi solo a questa maniera. Basta ascoltare le melodie che supportanoquei versi ironici.
Il poeta confessa durante un concerto: Quand’ho iniziato conoscevo tre accordi di chitarra, ma ora, dopotrentacinque anni di lavoro son migliorato...ne conosco cinque!
Può anche darsi, la questione è un’altra, la pasta delle suemelodie è la voce pura del miele. Sono melodie meravigliose, placide eindimenticabili, iniziano in calma, come un discreto tappeto su cui la scarnavoce dell’autore srotola i suoi versi, poi si agganciano all’animadell’ascoltatore, e gli strappano lacrime dalle oasi più profondedell’inconscio.
Il talento del melodista è una strana bestia, può essereconferito a un musicista preparato e colto come Léo Ferré o George Gershwin, maanche a un orecchiante sbilenco: attiene probabilmente più all’universo emotivoche a quello culturale, e che sia elaborata su un piano armonico complesso einafferrabile - alla maniera dei grandi compositori di canzoni Brasiliani adesempio - o che si appoggi su un banale DO/SOL7 ripetuto alla nausea, lamelodia quand’è bella emerge come un regalo, come un sospiro di brezza nell’afaestiva. Così era il talento di melodista dell’analfamusico Okudzava.
Tutt’altro paio di maniche l’apparente semplicità delle sueliriche. Lì vi è il tormento dell’uomo che conosce per nome le separazioni (qualcuno conosce a memoria il nome dellespecie dei pesci, io delle separazioni, diceva Nazim Hikmeth), ma taletormento è stratificato da una fittissima presenza di riferimenti letterari. Latotale consapevolezza dell’Okudzava letterato - che non può sfuggire alloslavofilo - giunge al lettore persino in traduzione, ed è il risultato di unacultura assimilata nei pori della pelle, non certo fuga ma altra realtà, veritàspesso profondissima, da cui attingere motivi di un intima resistenza.
La capacità di rendere trasparente tale stratificazione, dimodo che la cultura in questo poeta è come quelle 20 o 30 passate di verniceneutra che Amedeo Modigliani era uso dare sui suoi ritratti, rendendoli alcontempo lucidissimi eppur imprecisi, è una delle più alte caratteristiche diquest’opera densa ma chiarissima.
Quanta povertà c’è invece in certi contemporanei poetilaureati che coprono dietro l’oscurità di un ermetismo indigesto una deprimentevuotezza di setimenti.
Quando le opere di Okudzava si cominciarono a diffondere inRussia nell’aria si respirava la corrente fresca del disgelo, era il 1956 e ilmondo sperava in quella primavera annunciata dal XX congresso, con cui Chruscevaveva cominciato la destalinizzazione (e le cui speranze si sarebbero infrantedi lì a pochissimo in Ungheria). In quell’anno Bulat ha l’occasione di poterpubblicare il primo smilzo librettino di liriche.
Intanto queste liriche lui le ha già adattate al canto, egià le esegue per un ristretto cerchio di amici: i primi magnetofoni, leduplicazioni clandestine, la sete di libera comunicazione fanno il resto epermettono a queste canzoni di raggiungere la più sperduta periferiadell’immensa nazione sovietica, è il primo passo di una notorietà senza dirittid’autore, ma tanto eroica e indispensabile.
È l’epoca gloriosa del Samizdat, l’edizione clandestina. A Okudzava comincia a capitare anche di esibirsi inpubblico, limitatamente al proprio carattere molto schivo e agli impegni discrittore tout-court: egli oltre alle pubblicazioni poetiche pubblica diverseopere narrative, novelle e romanzi, delle quali esistono persino delletraduzione italiane: Il povero Avrosimov,In prima linea, Appuntamento con Bonaparte.
Le esibizioni pubbliche del Bulat cantautore sono peròspesso limitate, oltre che da queste scelte personali, dai mancati permessi,dall’ostilità aperta, dalla censura sempre all’erta. Sempre imbecille e inutile.
A Bulat capiterà persino di poter incidere negli anni ’60 undisco, uno vero... però a Parigi per la sinistrosa (e benemerita) etichetta Chant du Mond, ben lieta di annoverarlonel suo pregevole parco di artisti (insieme ad Athaualpa Yupanqui, LluisLlach,...); vien da pensare un po’ malignamente che per i comunisti francesiallora valesse la regola biblica del nonsappia la destra quello che fa la sinistra, e così ciò che è apertamenteosteggiato in patria diventa motivo di sovietico orgoglio all’estero...beninteso! Purchè non si tenti di importare quei pericolosi dischi in Russia!
Ma non voglio neanche compiere l’errore di interpretarel’arte di Bulat all’unica luce del clima d’infame ostilità in cui si dovetteesprimere, ben più grande e generosa resta la sua opera.
La preghiera di François Villon, La canzone dell’Arbat, la CanzoneGeorgiana, per non fare che pochi titoli, sono diamanti inestimabili in cuila nostalgia e un dolore diffuso, il senso di perdita senza remissione, sisposa a una fraterna appartenenza alla dolorosa umanità dei protagonisti diquesto canzoniere.
Una delle ultime incisioni di Bulat in circolazione (beh...insomma, diciamo che io me la son disseppellita da un magazzino francese) è lapostuma pubblicazione dei nastri del suo ultimo concerto dato nel ‘95 a Parigi.Cosa si può dire se non che ogni minuto è un’emozione indescrivibile: l’anzianobardo vieta di spegnere le luci in sala perché vuole dialogare col pubblico frauna canzone e l’altra, si fa portare sul palco dei foglietti con le domande deipresenti, si serve di un traduttore simultaneo per provare a rispondere,leggiucchia stentatamente alcune liriche senza nessuna prosopopea, come rivoltoa sé stesso, ma nonostante tutta quest’informalità quando sul tappeto dei suoicinque accordi fa il suo augurio agli amici o parla del soldato ussaro - chenel turbine di polvere che il tempo ha deposto su ogni eroismo, su ognivanteria, su ogni medaglia, è ancora inginocchiato a brillare d’amore per lasua Marina - allora la voce, il respiro e il fiato portano a bruciare le lacrimein ogni petto umano che abbia o non abbia mai conosciuto quella Moscastraziante e commossa, la cui aria - come diceva Breznev - sarebbe stata piùrespirabile dopo la morte dei suoi massimi cantori.
Bulat lì respira e aggancia a ogni respiro chi lo ascolta.
Chi è morto due volte è solo Breznev e il suo poterecorrotto. E ben gli sta.

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