martedì 30 luglio 2013

"Il sangue politico": la prefazione di Erri De Luca

Gli anarchici della Baracca. Un caso che li riassume tutti
di Erri De Luca

A proposito del sangue politico della mia generazione. Il bisogno di memoria, disse Pushkin, non nasce dall'orgoglio ma dalla vergogna. Dei libri che ho letto da più di quarant'anni sulla gioventù politica degli anni '70, questo li riassume tutti. Nicoletta Orlandi Posti non è coetanea di quell'epoca. Uso questa parola secondo l'originale significato greco: epokhè è un punto fisso di una costellazione. Ci sono periodi della storia che restano bloccati, non trascorsi, irrigiditi in una fissità. Questa fu quell' epoca. Oggi siamo nei tempi che corrono, una materia fluida.

Nicoletta Orlandi Posti non appartiene a quell'epoca, ha voluto sapere. Nessuna scuola, nessuna faticosa giornata della memoria le ha trasmesso quello che ha scritto qui. Ha voluto conoscere e darsi cittadinanza di coetanea. E' il miglior traguardo di uno studio storico.

Qui c'è il prodotto riuscito della sua volontà di appartenenza. Riuscito su due piani: la più serrata e documentata indagine e un montaggio narrativo che trasforma perfino il verbale di un interrogatorio nel dialogo di una sceneggiatura. (continua a leggere)

domenica 28 luglio 2013

Cento anni il boia Priebke, diciotto anni la vittima: Lallo Orlandi Posti


«Io non vorrei mandare all'inferno nessuno. Ma per i tedeschi come Erich, che seviziano i prigionieri, vorrei inventare nuove torture». A scrivere queste parole è Orlando Orlandi Posti prigioniero a via Tasso nel febbraio 1944. Sta parlando del capitano Erich Priebke che domani, 29 luglio, compierà 100 anni.
Il boia nazista ha raggiunto il secolo di vita. Mio zio Lallo, invece, aveva appena compiuto diciotto anni quando venne trucidato su suo ordine nelle cave delle Ardeatine il 24 marzo dello stesso anno. Fu ammazzato con un colpo di pistola alla testa dopo 50 giorni di torture fisiche e morali. Il suo corpo quando venne scoperto l'eccidio era irriconoscibile: i capelli neri e ricci erano diventati tutti bianchi e dritti.

Era alto e bello Lallo quando armato di un vecchio fucile stava tra gli studenti, le donne, gli operai che cercavano di respingere le armate tedesche a Porta San Paolo e sulle rive dell'Aniene. Studente dalle scuole magistrali, a diciassette anni era entrato nella Resistenza: seminava chiodi per strade per fermare le autocolonne tedesche, trasportava armi, partecipava alle dimostrazioni per boicottare le lezioni all'università da dove erano stati esclusi gli ebrei e gli antifascisti. Lo hanno fermato la mattina del 3 febbraio 1944 non prima però di essere riuscito ad avvertire i compagni di un'imminente retata.

Ode al signor E, che ama l'alta velocità

Ode a te
o fiero condottiero
delle parole al vento
sferzanti portatrici
di odio e di rancore
frutto del seme
dell'idiozia materna
che tanta e tale arte
profuse nel crear
tale rispetto
che il figlio suo
riversa sulle donne

Paura non abbiamo

Con "Paura non abbiamo" inizia la collaborazione del poeta militante Barry Kate. 

Criminali vestiti di bandiere
armano mani
di scudi e manganelli
riempiti di parole
vuote

menti ingrassate
al suono del comando
nell'incapacità di percepire
il giusto dal sbagliato
il sole dalla luna
la nebbia dalla polvere di stelle

occhi svuotati
dal troppo non pensare
strappano carne
anima e sogni
dei loro stessi figli
convinti
dall'oppio del potere
che quella non è la loro madre
non è la loro terra.

Nel nome del dovere
marciano fieri
tra i boschi della valle
che credono nemica
sparando candelotti
aprono strade
ai loro condottieri
varchi sicuri
dove poter passare
tracciati con suola di scarponi
sul corpo della gente che si oppone.

Poi dopo
finita la battaglia
tornano a casa
col mutuo da pagare
le spese del dottore
e una pensione che non vedranno mai

felici e soddisfatti
d'aver salvaguardato
il cancro
che se li sta mangiando
convinti sia solo un raffreddore

utili idioti
in mano ad un potere
criminale
complici e vittime
del non voler pensare.

Barri Kate

Il terrore del Casellante

Qui l'unico che genera terrore
è il Casellante
che cerca di incutere paura
a chi
liberamente sceglie
di esprimere il dissenso

Nascosto dalle vesti di uno Stato
che la democrazia usa a consumo
dei pochi eletti a consumar banchetti
il fiero paladino della legge
dispensa pene
per chi non si rimette
a pascolar tranquillo
dentro il gregge

L'eroico paladino
del potere
col capo chino
immerso nelle chiappe
a slinguazzare corrotti deretani
prosegue la sua infima battaglia
sul corpo della valle
colpevole
agli occhi dell'infame
di non volersi più
farsi stuprare
nel nome di un progresso
che nasconde
gli affari
di amici e di compari

Ma oggi come ieri
il tempo insegna
la storia ci confida i suoi segreti
se ancora ci chiaman terroristi
restiamo come sempre
partigiani.

Barri Kate

venerdì 19 luglio 2013

Carlo Giuliani, c'è chi provoca e chi fa i fatti


Gente di marmo e di anarchia, per dirla usando le parole di Marco Rovelli,  quelli di Carrara. Compagni. Compagni che non dimenticano. Grazie alle loro mani, bagnati del loro sudore e delle loro lacrime, ci sono in giro per l'Italia monumenti a ricordo di chi ha lottato fino a morire per un mondo diverso, un mondo migliore: da quello dedicato a Gaetano Bresci a quello per Franco Serantini, passando per una infinita serie di targhe e lapidi. Da domani anche Genova ne avrà uno e sarà dedicato a Carlo Giuliani. In occasione del dodicesimo anniversario dell'assassinio di un ventitreenne ammazzato da un carabiniere nel corso di cariche illegittime, "i compagni di Carrara" hanno realizzato un blocco di granito con scolpita la frase "Carlo Giuliani, ragazzo, 20 luglio 2001". Saranno i lavoratori del porto di Genova a portarlo a Piazza Alimonda, lì dove alle 17,27 di dodici anni fa il rappresentante delle forze dell'ordine Mario Placanica sparò il colpo di pistola fatale.

Già nel 2011 gli anarchici di Carrara avevano realizzato la targa nel giardino della piazza ribbatezzata Piazza Carlo Giuliani, ma visto che è stata spesso danneggiata, il padre Giuliano ha spiegato che «si è pensato di sostituirla con un blocco di granito contro le teste di 'marmo'». Purtroppo non basterà a impedire a taluni personaggi di continuare a provocare speculando, alla ricerca di un attimo di notorietà, sul dolore delle famiglie delle vittime. Come quei poliziotti del sindacato Coisp, gli stessi che sono andati a manifestare sotto l'ufficio della mamma di Federico Aldrovandi a Bologna, che hanno chiesto l'autorizzazione alla questura di Genova per organizzare lo stesso giorno dell'anniversario della morte di Carlo, a piazza Alimonda, un dibattito dal titolo polemico: "L'estintore come strumento di pace". Consapevoli che le autorità cittadine domani non potevano concedergli quello spazio hanno pensato bene di chiederlo per tutti i 20 luglio a venire fino al 2021. Un'altra, inutile provocazione.

giovedì 18 luglio 2013

Imbrattata la targa di Pinelli a Piazza Fontana. Quel marmo non si tocca!

La targa di Pinelli oltraggiata
Qualche idiota la notte tra martedì e mercoledì si è divertito a imbrattare la targa di Pinelli a piazza Fontana: non quella delle istituzioni, bensì quella dei compagni del ferroviere anarchico ammazzato nell'ufficio del commissario Calabresi il 16 dicembre 1969. Anticipando quello che il Comune di Milano vorrebbe fare, il solerte vandalo ha modificato la scritta da "ucciso" in "uccisoSI". Due lettere che firmano in maniera chiara ed inequivocabile l'oltraggio.

E' di qualche giorno fa, infatti, la decisione di Palazzo Marino di rimettere mano alle targhe commemorative sparse in città. Tra queste quella posta dagli anarchici nel giardino di fronte alla Banca Nazionale dell'Agricoltura dove la bomba fascista del 12 dicembre 1969 fece 17 vittime e ferì 88 persone. Con il voto favorevole del Pd e del centro destra il consiglio comunale ha infatti approvato la proposta della Lega Nord di modificare la grammatica delle targhe toponomastiche che contiene anche l'emendamento del terzopolista Manfredi Palmieri secondo il quale le targhe devono essere corrette anche nei contenuti se portano il nome delle vittime degli episodi di terrorismo. Il Comune di Milano le modificherà, dice il documento approvato, «inserendo nel testo la verità giudiziaria affermata». La cosa non è parsa vera a Riccardo De Corato che già aveva provato senza riuscirci a smantellare la lastra di marmo. Il "fratello d'Italia", non appena l'Aula ha dato il via libera, si è affrettato ad annunciare: «Il Comune rimuoverà la targa apposta dagli anarchici abusivamente nei giardinetti di piazza Fontana dove è scritto che Pinelli fu ucciso. D'Ambrosio accertò che l'anarchico Pinelli non fu ucciso».

Parole le sue che non coincidono con quanto detto da Napolitano il 9 maggio 2009 quando accolse al Quirinale la vedova Licia Pinelli. Forse De Corato non ricorda che il presidente della Repubblica in quell'occasione chiese «rispetto e omaggio per la figura di un innocente, Giuseppe Pinelli, che fu vittima due volte: prima di pesantissimi e infondati sospetti, poi di una improvvisa e assurda fine». E' un peccato che De Corato non sappia che la verità giudiziaria nel caso di Pinelli non coincide con quella storica.

De Corato dovrebbe sapere inoltre, visto il tentativo andato male già una volta, che rimuovere quella targa è pressoché impossibile: potrà sempre esserci qualche imbecille che si divertirà a sporcarla, potrà sempre esserci qualche trombone che annuncerà di volerla toglierla, ma il marmo non si sposterà da lì. Si metta l'anima in pace: la targa degli anarchici a ricordo di Pinelli resterà dov'è a ricevere l'omaggio di chi non dimentica.

Per questo il Ponte della Ghisolfa, il circolo del "ferroviere ucciso innocente nei locali della questura di Milano il 16 dicembre 1969", ha organizzato per il 24 Luglio, alle ore 18, un presidio a piazza Fontana. Verrà ripulita la targa imbrattata a ribadire che quel marmo firmato "dagli studenti e democratici milanesi" non si tocca: continuerà a ricordare la verità. Anche a quelli che la considerano una verità scomoda. (nop)

lunedì 15 luglio 2013

Un regalo prezioso da un bambino palestinese: la sua moqlya

Il mio amico Walid
Lo so. La notizia è uscita qualche qualche giorno fa suscitando giustamente lo sdegno dei più. Ovviamente c'è stato pure chi, pur di fronte alle immagini,  ha negato la realtà nascondendo la testa sotto la sabbia facendo finta di non vedere o semplicemente ignorando quello sta facendo Israele nei Territori Occupati. Oggi, però, cercando una fotografia per un articolo, mi è capitato sotto mano l'album del viaggio in Palestina. E' stato un attimo ritrovare tra i volti di quei bambini che ho fotografato la faccia di Wadi'a Maswadeh che a cinque anni è stato fermato e trattenuto per due ore dai soldati israeliani per il solo fatto di aver tirato delle pietre. Per questo ho voluto scrivere.

Di piccoli Wadi'a ne ho conosciuti molti a Dheisheh e a Jayyous. Sono in gamba, studiano molto (specialmente l'inglese), fanno sport e sì, è vero, lanciano sassi al di là del filo spinato che circonda il campo profughi in cui sono costretti a vivere. Uno di questi bambini, Walid, mi ha regalato la sua moqlya, una fionda. Un regalo prezioso, costruito con le sue mani mettendo insieme dello spago e un pezzo di copertone. Ha provato anche ad insegnarmi come si usa, ma io sono stata incapace di lanciare la breccola raccolta da terra a più di mezzo metro. Il giorno della partenza dal suo campo mi ha raccomandato di nasconderla bene: se l'avessero trovata, mi disse, l'avrebbero considerata un'arma e io avrei passato i guai. Pensai che fosse una preoccupazione esagerata, ma lo stesso la usai come cinta dei pantaloni per evitare che al ceck point di Tel Aviv me la sequestrassero. Ci tenevo troppo per perderla. Visto il trattamento riservato dai soldati israeliani a Wadi'a, la preoccupazione del ragazzino palestinese di Jayyous, però non era così esagerata. Il lancio di pietre viene considerato un reato, ma non è un crimine far vivere ragazzini come Walid e  Wadi'a nelle condizioni che ho visto con i miei occhi.

In Palestina sono andata nell'aprile 2009 con la carovana di "Sport under the siege": è stato un viaggio incredibile che mi ha segnato profondamente. Qui di seguito ci sono le foto e il report di quelle giornate che ancora oggi, rileggendo, mi fa venire i brividi. 
"La strada che dall’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv porta al campo profughi di Dheisheh, a Betlemme, prima tappa della carovana di “Sport sotto l’assedio”, è costellata di chilometri di filo spinato, reti, muri di cemento. Il paesaggio desolato è interrotto da piccoli insediamenti arrampicati sulle alture brulle. Nei villaggi dei coloni le case sono basse (per rendere più rapidi i tempi di costruzione), hanno i tetti rossi spioventi. Pare sia per distinguerli, durante i bombardamenti dell’aviazione israeliana, dai tetti bianchi e piatti dei villaggi e dei campi profughi palestinesi. C’è come un’enorme trincea ritmata da tronchi di ulivo decapitati che affiorano dal terreno, ciò che resta di centinaia di alberi secolari. Vedere quei pezzi d’albero senza vita dà il senso della violenza dell’occupazione.
La nostra meta è l’Ibdaa cultural center, centro culturale nato nel 1994 che si trova all’ingresso di Dheisheh, uno dei 59 campi profughi nati nel ‘48: 12 mila persone costrette in mezzo chilometro quadrato. «Ibdaa» letteralmente vuol dire «creare qualcosa dal nulla». Ci spiegano: «Da sessant’anni il volere israeliano è che a Dheisheh non debba esserci nulla, per questo il centro si chiama Ibdaa». Il centro organizza nel campo l’ostello, il ristorante, la biblioteca, l’asiloper i bambini, un laboratorio di sartoria, l’ospedale, attività come danza, musica, teatro, e il comitato delle donne. Inoltre, con grande fatica, l’Ibdaa finanzia l’università, ogni anno, a cinquanta ragazzi di Dheisheh. Nel campo si procede in fila indiana, non c’è spazio, le case sono molto vicine l’una all’altra. Il nostro  accompagnatore, Jihad, ha 26 anni. «Qui è come averne 50», dice. Sui muri graffiti e murales lasciati da artisti di ogni parte del mondo, alcuni sono opera dei «carovanieri» che ci hanno preceduto quest’anno e negli anni passati. Ai murales si alternano le facce di giovanissimi ragazzi del campo uccisi dall’esercito israeliano, l’ultimo è stato crivellato da 500 colpi di mitra.

La prima giornata prevede il grande evento: la partita della nazionale under 21 palestinese contro l’improvvisata nazionale italiana di Sport sotto l’assedio, a seguire l’incontro tra le squadre femminili. Lo stadio di Al Ram, a Ramallah, è stato costruito dalla Fifa, la federazione calcistica mondiale, due anni fa. Qui si allena la nazionale palestinese, che durante l’«operazione Piombo fuso» ha perso due dei suoi giocatori migliori, uccisi a Gaza dalle bombe israeliane.
Per arrivare allo stadio non possiamo percorrere l’autostrada, riservata ai cittadini israeliani, che collega in venti minuti l’insediamento di coloni Maali Adumin con Gerusalemme. Noi, per raggiungere Ramallah a bordo di un autobus con la targa verde palestinese, abbiamo impiegato circa un’ora e mezza, lungo la strada tutta curve che passa dal «check point» di Abu Dis. Allo stadio però riceviamo un’accoglienza degna dei campioni del mondo, bandiere italiane e palestinesi sventolano ovunque. Sotto una gigantografia di Arafat c’è uno striscione di “Sport sotto l’assedio”: «Senza la vostra libertà non saremo mai liberi». Un momento di imbarazzo, prima del fischio di inizio, quando i ragazzi palestinesi con noi sugli spalti hanno provato a metterci in mano il tricolore per ascoltare gli inni nazionali. Finito quello palestinese (la squadra di casa con la mano sul cuore) è toccato a noi: sulle note dell’inno di Mameli nessuno sapeva cosa fare, all’improvviso si è alzato un pugno e da lì sulla curva italiana è partita una «ola» di pugni chiusi, ci è parso un compromesso accettabile. Il risultato sportivo invece è deludente: abbiamo perso le due partite 10 a 0 e 9 a 0, e in mondovisione.

Il 5 aprile la carovana si è divisa in tre gruppi che hanno raggiunto, scarpini da calcio ai piedi, diverse zone della West Bank, per disputare partite con le squadre locali e per iniziare i laboratori di fotografia, energie rinnovabili, musica e free software rivolti ai bambini e agli adolescenti, quelli che più soffrono una situazione in cui la guerra e l’occupazione sono la normalità. Dopo i saluti e un’abbondante colazione a base di humus e felafel, il mio gruppo si dirige verso Jayyous, nel distretto di Qalqilya, a pochi chilometri da Tel Aviv.
Ripercorriamo la strada del giorno prima, al «check point» di Abu Dis i militari trattengono la nostra guida palestinese, membro dell’associazione Stop the wall. Poi lo lasciano andare, ma Mohammed si dovrà presentare per un controllo nei giorni successivi. Lungo il percorso la guida ci spiega la situazione del villaggio: fino al 2002, Jayyous godeva di una economia florida, fatta di agricoltura e commercio anche con i vicini israeliani. Con la costruzione del muro, Jayyous ha perso buona parte dei campi coltivati, gli uliveti e i pozzi. Ora la disoccupazione è al 75 per cento. Da novembre scorso l’associazione “Stop the wall” organizza ogni venerdì una manifestazione contro il muro cui partecipa tutto il paese.

Il nostro arrivo nel villaggio è salutato da centinaia di bambini, ci corrono dietro fino al Charity Center, dove saremo ospitati nei quattro giorni successivi. è un centro di assistenza alla popolazione come ne esistono in altre città palestinesi. Al piano terra c’è la scuola per i bambini dai 4 ai 6 anni, che imparano arabo, matematica e inglese. Ogni mattina le voci dei bambini saranno la nostra sveglia, insieme al canto del muezzin. Ci sistemiamo in uno stanzone, 53 materassi e un unico bagno; nella fila per entrarci nasceranno grandi amicizie. Dopo le presentazioni e il pranzo, partiamo per le vie di Jayyous accompagnati dalla Banda della Murga, quella che anima i cortei romani con salti e balli al ritmo dei tamburi. Come sempre, decine di bambini ci seguono. Con loro raggiungiamo la parte alta del paese, da lì è ben visibile il muro di cinque chilometri e mezzo e il «gate north», sorvegliato dagli israeliani, che filtra l’accesso al 78 per cento delle terre coltivate. Per raggiungere i campi esistono due passaggi, aperti tre volte al giorno per un’ora, e un «terminal» aperto 12 ore al giorno, ma con controlli più rigorosi. Sul recinto-muro che circonda il paese spiccano placche di plastica numerate: se qualcuno tocca la rete, i sensori mandano un segnale alla centrale di controllo israeliana: i numeri servono ad identificare rapidamente la zona. Il pass per attraversare il muro è rilasciato a discrezione degli israeliani. Al momento è concesso – come ci hanno raccontato i ragazzi di Jayyous e come abbiamo verificato con i nostri occhi - solo a persone anziane. L’ultima volta, su cento richieste di pass ne è stata accettata solo una, fatta da una persona che vive a Dubai, nel Golfo.

Il giorno successivo saremmo voluti andare a Gaza, ma un fax israeliano ci ha fatto sapere, prima della partenza, che «nella Striscia di Gaza non c’è niente da vedere e nessuno da incontrare». Perciò restiamo a Jayyous. Con Muafaqk e Noor, studenti universitari e volontari del Charity Center, andiamo vedere i due «gates». Al di là del filo spinato la collina appare verde e lussureggiante; dal lato palestinese la terra è arida. A ridosso dell’orario di apertura del «gate north» arriva un contadino su un vecchio trattore. In perfetto inglese, l’uomo, rappresentante del Comitato in difesa della terra come la maggior parte dei contadini della zona, ci racconta le difficoltà di ottenere il pass: bisogna dimostrare di avere un campo, di non avere problemi con la sicurezza israeliana per attività politica o altro, di non avere in famiglia un «martire», e in quel caso la terra viene espropriata. Il permesso va rinnovato ogni tre o sei mesi, ogni volta con un periodo di attesa di un mese durante il quale il raccolto viene abbandonato. E comunque ottenere il pass non dà certezze: i soldati possono chiudere l’accesso per giorni, o semplicemente non farti passare.

È questo stato di costante incertezza, di assenza di regole, anche ingiuste, che rende ancora più precaria la vita di questa gente, spingendola all’esasperazione: «Sai quando esci di casa - raccontano - ma non sai quando arriverai al lavoro, al tuo campo da coltivare, all’ospedale o all’università».
I prodotti palestinesi non vengono venduti in Israele, i prodotti israeliani invadono i mercati palestinesi abbassando i prezzi. I pomodori si vendono a meno di un euro per 15 chili. «Nella stagione delle olive abbiamo bisogno di lavoratori, ma solo chi ha il pass può attraversare il confine», spiega ancora il vecchio sul trattore. Molte donne non vanno più nei campi per non subire l’umiliazione della perquisizione. L’aiuto arriva solo dagli «internazionali», e da qualche israeliano.

La sera del 6 aprile dall’unico internet point o via sms cominciano ad arrivare le notizie del terremoto in Abruzzo. Il giorno successivo tutti ci esprimono grande solidarietà e ci ringraziano di essere lì, nonostante la situazione in Italia. Ci guardiamo intorno, vediamo le case distrutte di Jayyous, proviamo a immaginare L’Aquila. 

Per le strade si vedono solo bambini, qualche adolescente, poche donne e praticamente nessuna ragazza. Conosciamo Husam, 21 anni, di cui tre passati in carcere, tre buchi di pallottola sul corpo. Lavora in una radio a Ramallah, ed è l’unico posto che ha il permesso di raggiungere quando esce dal villaggio. Si definisce un «throwing stones», tiratore di sassi. Si dichiara comunista, al collo ha un vistoso ciondolo con la falce e il martello, non va in moschea. Ci porta a vedere il paesaggio notturno dalla scuola, indica Tel Aviv e poi il mare, è da nove anni che non può andarci. Il panorama è a macchie di luce e buio, le zone illuminate sono insediamenti israeliani, quelle buie città palestinesi. Ci indica all’orizzonte il villaggio di Sofem, in Israele, dal quale il venerdì arriva qualche ragazzo israeliano per partecipare alla manifestazione.
Da novembre sono state arrestate 25 persone. Un mese e mezzo fa i soldati israeliani sono entrati in paese rastrellando a caso uomini e ragazzi per le case del villaggio, rinchiudendo 85 persone, bendate, per tre giorni nella scuola e infine procedendo a 13 arresti. Mentre siamo al campo sportivo, i soldati entrano di nuovo.
Il proiettile sparato sotto i nostri occhi
Questa volta sparano su ragazzini che probabilmente avevano tirato pietre verso il gate con la loro «moqlya», la fionda. I militari sparano proiettili di 2 centimetri di diametro, un sottilissimo strato di gomma riveste la sfera di piombo. Un ragazzino viene ferito.

Prima di lasciare Jayyous andiamo a Qalqilya. Anche qui l’economia era viva, gli israeliani venivano a comprare piante, fiori e altre produzioni locali. Con la costruzione del muro, nel 2002, si sono persi 7 mila ettari di terreno. Il settanta per cento dei residenti dipende dalla Carta dei rifugiati, che permette di accedere agli aiuti delle Nazioni unite per i beni di prima necessità. Qui, come a Jayyous, Hamas è il primo partito. Il muro impressiona per la sua altezza e imponenza e per il senso di oppressione che dà. Si sente il rumore della auto che percorrono l’autostrada israeliana, dall’altra parte.
Il viaggio è alla fine. Salutiamo i nostri amici Moafawq, Noor, Husam, Makmoud. Con loro cantiamo ancora una volta «Bella ciao», poi li vediamo sparire per le strade, con i nasi rossi da clown lasciati come ricordo dalla Banda della Murga.

domenica 14 luglio 2013

Monza ricorda il tiranno, gli anarchici brindano a Bresci


Il 29 luglio di due anni fa, un gruppo di anarchiche e anarchici romani cambiarono il nome della toponomastica capitolina. Il ponte di fronte al Palazzo di Giustizia, quello che le autorità cittadine vollero dedicare a Umberto I, diventò “Ponte Gaetano Bresci” in omaggio al regicida, vendicatore anarchico che nello stesso giorno del 1900 uccise il Savoia.
Le targhe con la nuova intitolazione del ponte sono rimaste per lungo tempo al posto di quelle istituzionali: né le forze dell'ordine, né le autorità competenti -troppo occupati in altro- si sono accorti della sostituzione: così che per oltre un mese a Roma c'è stato “Ponte Gaetano Bresci”.
In attesa di conoscere come gli anarchici quest'anno, in occasione del 113° anniversario del regicidio, omaggeranno Bresci val la pena di raccontare come si preparano i monarchici a ricordare il loro re. 

Sabato 20 luglio a Monza un manipolo di persone vestite da carnevale si appresta a vivere una giornata di lutto con tanto di messa funebre per ricordare il loro amato re che affamò il popolo e autorizzò il genarale Bava Beccaris a sparare a Milano sulla folla inerme che chiedeva il pane, decorandolo poi con la "Gran Croce dell'Ordine Militare di Savoia" per i servizi resi al paese.
Questi gentiluomini e gentildonne, che saranno anch'essi premiati con un attestato di partecipazione (così promette la Guardia Reale), si sono dati appuntamento è alle 9,45 a piazza Duomo. Da lì andranno in corteo, accompagnati dalla banda musicale di Valbrona a depositare alcune corone d'alloro alla Cappella Espiatoria. Verrebbe da chieder loro perché, visto che la salma di Umberto I sta al Pantheon, ma tant'è. Alle 11,30 è prevista la messa nella chiesa dei carmelitani scalzi. Poi tutti a mangiare al ristorante dell'Hotel de la Ville per il modico prezzo di 60 euro. Nell'invito alla partecipazione spedito a tutti i soci viene indicato anche il dress code, ovvero l'abbigliamento da indossare nella calda giornata del 20 luglio: “mantello o tenuta sociale abito scuro, scarpe adeguate, cravatta dell’Istituto, fascia da braccio, guanti bianchi e basco con fregio dell’Istituto o cappello del corpo militare in cui si è svolto il servizio alla Patria”. A dar manforte ai monarchici, pare arriveranno anche dei nazionalisti, armati di tricolore e slogan triti e ritriti.
Di certo ci sarà qualcuno che la sera del 29 luglio berrà un buon bicchiere di vino brindando a Bresci e ai tre colpi di pistola che uccisero Umberto I: “La condanna mi lascia indifferente”.

Mettevi l'anima in pace: non sarà un rogo a fermare il Socrate

Chissà se si sono fermati a guardare da lontano il fuoco che distruggeva tutto. Chissà se gli è venuto in mente che quelle fiamme -  mentre bruciavano i banchi, i computer, le cattedre e i libri - stavano alimentando la determinazione di chi si batte per i diritti sociali, contro il razzismo, l'omofobia, il fascismo. Chissà se quegli infami stamattina, a mente lucida, si sono resi conto che il loro delirio di onnipotenza è stato un clamoroso autogol.
Il Socrate non è solo un edificio con suppellettili che puoi distruggere con un incendio. Il Socrate sono gli studenti, gli ex studenti, un quartiere intero, la Garbatella. Il Socrate è un punto di riferimento culturale, politico e sociale che non lascerà che un rogo vanifichi anni e anni di attivismo interrompendo la lotta quotidiana contro ogni forma di discriminazione.
Si mettano l'anima in pace gli sfigati vandali notturni. Colpendo il Socrate, come hanno già fatto nei mesi passati Forza Nuova e Lotta studentesca che hanno firmato delle ignobili scritte omofobe sui suoi muri, hanno confermato che c'è bisogno di un impegno ancora maggiore per liberare questa città dai nuovi e vecchi fascismi in difesa dei diritti degli omosessuali, dei migranti, dei senza casa, delle vittime della repressione. Alle iniziative di quest'anno contro razzismo e omofobia, ai momenti di approfondimento sui crimini del fascismo, alla presentazione del film Diaz con il regista Daniele Vicari e agli incontri come quello con l’Ambasciata argentina per approfondire gli aspetti di una feroce dittatura militare, ne seguiranno tanti altri.
Non sarà l'incendio di otto aule a chiudere la bocca a chi lotta contro la discriminazione. Non sarà un gruppo di esseri insignificanti che si credono forti solo perché hanno in mano una scatola di cerini e una tanica di benzina a interrompere un progetto consolidato e condiviso. Nessuno fermerà questi ragazzi. (nop)

A distanza di due giorni dall'incendio al liceo Socrate i responsabili si sono costituiti alla Digos. Si tratta di quattro ragazzi, due maggiorenni e due minorenni, che avrebbero appiccato il rogo nella scuola per 'vendicarsi' della bocciatura (tre erano stati bocciati e uno promosso). In Questura hanno raccontato che l'idea è nata al mare e la notte stessa, sotto gli effetti dell'alcol hanno appiccato il fuoco con l'intenzione di danneggiare qualche banco. "Non immaginavamo che le fiamme potessero estendersi", hanno confessato agli agenti. 

giovedì 11 luglio 2013

Via Rasella, i partigiani sono eroi non terroristi


C'è un infame che sulla tv di stato si è permesso di dare dei terroristi ai partigiani sostenendo che la bomba di via Rasella fu "un attentato terroristico". Questo infame si chiama Pippo Baudo, che invece di occuparsi di canzonette, o quiz a premi, adesso si è messo a fare lo storico. Lunedì scorso ha voluto cimentarsi nel raccontare l'eccidio delle Fosse Ardeatine che ebbe come responsabili, a suo dire e con i soliti giri di parole che sa usare bene, i partigiani autori dell'azione contro un reparto delle truppe di occupazione tedesche, l'SS-Polizei-Regiment "Bozen" (reggimento di polizia delle SS "Bolzano") a via Rasella.

L'infame Baudo nel cercare di mettere una pezza alle assurdità contenute nella sua trasmissione, dopo la dura presa di posizione dell'Anpi, ha continuato a difendere la leggenda dei manifesti con i quali i nazisti avrebbero chiesto ai partigiani di consegnarsi. Secondo Pippo i partigiani sapevano che la reazione dei tedeschi sarebbe stata uno a dieci e dovevano tenerne conto prima di compiere l'attentato. "Purtroppo che questa rappresaglia nazista ci sarebbe stata era noto perché c'erano, come ha detto il maggiore Sardone, manifesti su tutti i muri di Roma", ha detto il signor "sotuttoio" dimostrando di ignorare una verità storica ormai accertata anche in sede giudiziaria. Non contento ha continuato: "Le verità storiche, anche se amare, vanno sempre dichiarate". "Che vigesse una legge del taglione che prescriveva dieci morti italiani per ogni tedesco ucciso purtroppo lo si sapeva già", ha insistito.

L'Anpi ha provato a spiegare a lui, agli ignari e a coloro che vogliono dimenticare o deformare la realtà che l’azione condotta dai partigiani (fra cui Bentivegna e Capponi) è stata riconosciuta come “legittima azione di guerra” da due sentenze della Cassazione; che da tutti gli atti dei processi risulta con chiarezza che non ci fu nessun avvertimento preventivo, né fu offerta alcuna possibilità per i partigiani di assumersi  la responsabilità di salvare vite umane, per la semplice ragione che – invece – i comandi tedeschi decisero di comunicare la notizia dell’eccidio alle Fosse Ardeatine solo dopo l’esecuzione.

Niente. Il Pippone nazionale ha tirato dritto per la sua strada. "Qui si gioca con le parole", ha insistito nella deformazione dei fatti e nella formulazione di giudizi oltraggiosi e sommari tirando in ballo perfino Salvo D'Acquisto. Del resto ha giocato con le parole anche il suo ospite, il maggiore Sardone,  che ha confuso i Gap “gruppi d’azione patriottica” che operarono dopo l’8 settembre, con i “gruppi armati proletari”, costituiti dai terroristi molti anni dopo. Ha giocato con le parole facendo credere ai telespettatori che Bentivegna è stato eletto parlamentare per la sua azione a Via Rasella, cosa nel modo più assoluto falsa. Di verò c'è solo che a Bentivegna fu assegnata una medaglia d’argento ed alla Capponi una medaglia d’oro proprio per le azioni compiute nella Resistenza, a Roma e altrove.

Sono eroi, non terroristi. E i responsabili dell'eccidio delle Fosse Ardeatine sono i nazisti, non altri. Sono loro che hanno trucidato e poi occultato i cadaveri di 335 persone. Trecentotrentacinque persone, 335 spine nel cuore. Tra queste mio zio, Lallo Orlandi Posti, 18 anni: un partigiano.

"I funerali dell'anarchico Pinelli", una testimonianza ancora scomoda

I funerali dell'anarchico Pinelli, Enrico Baj (1972)
C'è Pino Pinelli al centro che precipita dalla finestra di una stanza con la luce accesa dalla quale sporgono quattro mani. Ci sono braccia mostruose prive di corpi, alcune di esse armate con armi da taglio e bottiglie, che ne accompagnano la caduta, o meglio lo schiacciano verso terra. Due gruppi circondano la figura centrale dell'anarchico: a sinistra ci sono i compagni, i militanti che partecipano ai funerali, alcuni piangono, certi portano le bandiere rosso nere, altri puntano il dito in segno di accusa, molti hanno i pugni alzati. A destra, invece, ci sono dei personaggi che, a parte le mani,non hanno niente di umano: hanno decorazioni militari sui petti, sono tutti armati e pronti a colpire. All’esterno del pannello principale ci sono le figure delle figlie, Silvia, con la mano sugli occhi, Claudia che stende le braccia verso il padre. Poi c'è la moglie Licia, protesa verso il centro, che urla disperata.

La grandiosa composizione fu realizzata tra il 1971 e il 1972 Enrico Baj su 3 metri di altezza e 12 di lunghezza, con 18 figure ritagliate nel legno, unite con la tecnica del collage per raccontare in uno spazio atemporale il momento della caduta dell’anarchico Pinelli ed il momento dei suoi funerali. Doveva essere inaugurata il 17 maggio 1972, ma venne rimandata a data da destinarsi per via dell'omicidio del commissario Calabresi che fu compiuto lo stesso giorno. Dopo la cancellazione della presentazione, Baj regalò l’opera a Licia, la vedova di Pinelli, ma viste le dimensioni non poteva tenersela in casa. Fu lo stesso Baj che si occupò allora di venderla alla Fondazione Giorgio Marconi offrendo il ricavato alla famiglia Pinelli.

L'anno scorso, finalmente, dopo oltre quarant'anni la città di Milano ha potuto ammirare dal vivo, per qualche mese la grandiosa opera esposta a Palazzo Reale. Purtroppo però questa testimonianza, imbarazzante ancora oggi per alcuni, adesso è stata smontata e impacchettata ed è tornata nei depositi della Fondazione Marconi. Il Comune di Milano non se l'è sentita di lasciarla in mostra a disposizione di tutti: l'ha restituita al proprietario che invece era ben disposto disposto a regalarlo alla città di Milano purchè le venisse una data una sistemazione dignitosa e definitiva. Il sindaco Pisapia purtroppo, nonostante una raccolta di firme promossa dal Ponte della Ghisolfa  ha ignorato il dono della preziosa opera di Baj arrecando un enorme danno al prestigio della città e alla memoria.

Il 6 luglio scorso proprio il circolo anarchico di Pinelli di via Monza a Milano, nel corso dell'annuale ricordo della morte di Pietro Valpreda, ha esposto in modo provocatorio una riproduzione fotografica a dimensioni reali dei "Funerali dell'anarchico Pinelli" di Baj per ricordare a tutti la storia difficile di una stagione segnata dalla violenza di Stato; la storia di una moglie e due figlie che perdono il loro amato padre e marito Giuseppe Pinelli, l’anarchico ingiustamente sospettato di essere l’artefice della strage di piazza Fontana che poi venne ucciso. (nop)

Il "19 luglio" festeggia i due anni di occupazione

Il 19 luglio è una data importante per gli anarchici di Garbatella. Si ricorda l'inizio della rivoluzione spagnola del 1936: «Il 19 luglio chi aveva un fucile lo prese e si unì in uno sciopero generale che arrestò i militari golpisti», racconta Abel Paz. «Dopo pochi giorni la gente tornò nelle fabbriche i padroni non c’erano più. Venne spontaneo riprendere a lavorare come avevamo sempre fatto, non più per il padrone ma per noi. Si cominciarono a formare dei comitati; fabbriche e produzione furono organizzate in modo differente».  Nel variegato fronte repubblicano (marxisti, anarchici, trotzkisty, stalinisti e  socialdemocratici), gli anarchici ebbero una grande influenza e sostegno popolare, anche se dovettero confrontarsi con il violento ostracismo dei  marxisti filo-sovietici.

Non è un caso che proprio il 19 luglio, due anni fa, un gruppo di anarchiche e anarchici occupò a Garbatella alcuni locali di via Rocco da Cesinale. Vennero tirate su quelle le saracinesce chiuse da tempo per trasformare gli spazi abbandonati in un luogo a disposizione del quartiere dove fare attività sociali, militanza e cultura. Calcinacci, mobili inutilizzabili, immondizia e umidità e una suddivisizione dello spazio poco adatta a un centro anarchico hanno lasciato il posto a una grande accogliente sala, un palco, una cucina e un bagno. I sacrifici dei compagni, il loro duro lavoro nella calda estate del 2011, la tenacia e la determinazione nel voler dare una casa ai tanti progetti ha permesso la nascita del "19 luglio".

Entrarci oggi, dopo aver visto quello che era, fa bene al cuore. C'è la bandiera storica del Gruppo Cafiero con la fiaccola dell'anarchia. Ci sono i libri della biblioteca libertaria. C'è un biliardino dove poter sfidare il compagno di turno. Sulle pareti ci sono i  manifesti delle varie iniziative, c'è una grande A cerchiata  dipinta su una tavola di legno nero, c'è la chitarra a disposizione di chi vuole suonare e cantare, c'è la  foto di Marco Liberini, un amico, un compagno che ci ha lasciato troppo presto, ma che continua ad essere con noi, ad  accompagnarci in questo viaggio. Un viaggio che ha messo in  contatto tante persone: i bambini che frequentano la scuola libertaria hanno portato al "19 luglio" i loro genitori, gli artisti come Alessio Lega e Ascanio Celestini che sono saliti sul palco del "19 luglio" hanno fatto arrivare a via Rocco da Cesinale tanta gente che mai era entrata in un circolo anarchico. Lo stesso vale per le presentazioni dei libri, una su tutte quella del libro di Valerio Gentili "Antifa", i cineforum, i concerti e la presenza magnetica di compagni storici come Enrico Di Cola, Roberto Gargamelli, Lello Valitutti, Tommaso, Fricche...

Venerdì 19 luglio si festeggerà tutto questo. A partire dalle 20 i compagni vi aspettano a via Rocco da Cesinale per una cena accompagnata da canti e balli anarchici. (nop)

Stalin e l'anarchia

Storie nostre
di Tiziano Antonelli per Umanità Nova

Mi è capitato fra le mani un libretto, pubblicato nel 1950 dalle Edizioni Rinascita. Questo libro raccoglie una serie di articoli scritti da Stalin in polemica con gli anarchici georgiani nel 1905 e nel 1906.
In quegli anni la Russia viveva un effimero periodo di libertà, in conseguenza della rivoluzione del 1905 e anche a Tiflis, oggi Tbilisi, capitale della Georgia, dove allora Stalin abitava, divampava la polemica fra anarchici e socialdemocratici. Il gruppo anarchico di Tiflis pubblicava i giornali “Nabati” (L'Appello), “Muscia” e altri. I gruppi rivoluzionari, affratellati dalla lotta contro l'autocrazia zarista, andavano differenziandosi secondo i metodi di lotta: i socialdemocratici approfittavano dei pochi spazi di libertà per dedicarsi al loro sport preferito: la lotta elettorale, attirandosi le critiche dei rivoluzionari e in particolare degli anarchici. Stalin scrisse la serie di articoli dal titolo “Anarchia o socialismo?” che furono pubblicati sul giornale “Akhali Tskhovreba” (Vita Nuova) dal giugno al luglio 1906. Gli ultimi articoli vennero sequestrati dalla polizia quando il rigurgito reazionario dello zarismo mise fine alle illusioni legalitarie dei socialdemocratici e ai loro giornali legali.
Scopo di Stalin in questi articoli era di caratterizzare il marxismo, analizzare le critiche anarchiche al marxismo e poi passare a criticare l'anarchia stessa. In particolare gli articoli pubblicati trattano del metodo dialettico, della teoria materialista, del socialismo proletario. Gli articoli più esplicitamente dedicati alla critica dell'anarchia, alla tattica e all'organizzazione del movimento anarchico non sono stati pubblicati e probabilmente sono scomparsi in seguito all'azione repressiva della polizia zarista.
L'interesse di questi articoli sta innanzi tutto nello stile di Stalin: il suo ragionamento è didascalico, a volte pedante, e riesce a spiegare in modo semplice e sintetico anche i problemi più complessi; questo è un tratto che Stalin conserverà sempre, anche nelle ultime opere, come il “Problemi economici del socialismo in URSS” del 1952. Il lavoro di Stalin ci fornisce quindi una descrizione attendibile del “socialismo scientifico”, degli elementi teorici condivisi dalla Seconda e dalla Terza Internazionale; allo stesso modo ci fornisce un tracciato delle critiche marxiste all'anarchismo in generale e in particolare alle interpretazioni teoriche diffuse nel movimento anarchico all'inizio del secolo scorso.
Questo volume inoltre, anche se pubblicato in italiano in pieno “culto della personalità”, dimostra che Stalin ha condiviso le posizioni di Lenin e della socialdemocrazia internazionale per molti anni, testi di Stalin furono pubblicati dal Partito Comunista d'Italia, guidato da Bordiga, negli anni 20 del secolo scorso; in questo contesto parlare di degenerazione staliniana rispetto al corretto insegnamento di Lenin e di Marx appare problematico: lo stalinismo è una delle possibili varianti della concezione autoritaria, legalitaria e riformista di Carlo Marx.
La serie di articoli contro gli anarchici georgiani inizia dall'esposizione del metodo dialettico: secondo Stalin il metodo dialettico rappresenta il continuo movimento della vita, in cui ogni giorno qualcosa nasce e cresce, e qualcos'altro deperisce e muore. Il metodo dialettico quindi aiuta a capire che il proletariato nasce e cresce, cresce di giorno in giorno, mentre la borghesia invecchia e va verso la tomba; quindi per quanto forte e numerosa sia oggi la borghesia sarà sconfitta. Il metodo dialettico quindi aiuta a comprendere le cause sociali delle rivoluzioni, che per Stalin (e Marx prima di lui) si chiamano “sviluppo delle forze produttive”.
Successivamente passa ad occuparsi della teoria materialista di Marx ed Engels, il cui scopo è legittimare la politica socialdemocratica. Infatti, quando passa ad occuparsi del “socialismo proletario”, Stalin sostiene che la teoria materialista individua quale ideale può rendere un servizio diretto al proletariato, sulla base del rapporto di questo ideale con lo sviluppo economico del paese; è la teoria materialista che permette di capire se un dato ideale corrisponda pienamente alle esigenze di questo sviluppo. Che il concetto di sviluppo economico sia da intendersi nell'ambito angusto della crescita della produzione capitalistica, è confermato più sotto, là dove Stalin afferma che “dobbiamo salutare l'estendersi della produzione”; in quest'ottica appare chiara l'inadeguatezza dell'anarchismo, ideale che “contrasta con gli interessi di una poderosa estensione della produzione”, l'idea anarchica, quindi, “è nociva al proletariato”.
E' ovvio che, se interesse economico del proletariato è lo sviluppo dell'economia capitalista, suo interesse politico sarà l'instaurazione della repubblica borghese; infatti, fino all'aprile del 1917, il programma dei socialdemocratici non andava oltre la costituente e l'instaurazione della repubblica democratica. Fu lo sviluppo dei soviet e la crescente influenza del movimento anarchico all'interno di essi che spinsero Lenin ad adottare un programma rivoluzionario, rapidamente gettato alle ortiche una volta che il potere bolscevico si fu consolidato.
Ma torniamo al ragionamento di Stalin: la prassi, la politica della socialdemocrazia sono corrette perché sviluppate in modo deduttivo a partire da metodo dialettico e dalla teoria materialista di Marx ed Engels; il metodo dialettico e la teoria materialista offrono una corretta interpretazione della realtà perché su di esse si basa l'azione del proletariato influenza dalla socialdemocrazia. Ridotto all'osso questo è il ragionamento circolare di Stalin, condiviso in forme più eleganti e sofisticate da tutti i socialisti autoritari.
Il brano sul socialismo “proletario” prosegue occupandosi della dittatura del proletariato e della lotta parlamentare; Stalin ovviamente difende la concezione autoritaria e legalitaria della socialdemocrazia, e attacca gli anarchici. L'esperienza ha dimostrato che la dittatura del proletariato ha portato alla ricostruzione del regime capitalistico, mentre la lotta parlamentare ha portato alla corruzione delle forze socialiste e comuniste che vi hanno partecipato, confermando le previsioni degli anarchici.
Più che la conferma di singoli punti, è stato confermato l'approccio sostenuto dal movimento anarchico: i socialisti autoritari hanno sempre sostenuto e continuano a sostenere che la teoria e la strategia del partito sono le armi principali per garantire il successo rivoluzionario e il pericolo delle degenerazioni; la corretta applicazione dei principi del socialismo scientifico è garantita dalla disciplina e dalla sottomissione dei militanti ai dirigenti, unici in grado di interpretare le parole dei profeti. La storia ha dimostrato che i partiti autoritari sono crollati miseramente di fronte all'aggressione dello Stato; è successo ai partiti socialisti in Germania e in Italia di fronte all'aggressione fascista, è successo ai partiti comunisti che si sono adeguati progressivamente al sistema, rivedendo poco alla volta i principi fondamentali, transigendo in cambio di un pugno di voti o di una fetta di potere. Questo è successo perché i dirigenti socialisti o comunisti erano malvagi, deboli, infidi? Forse, o forse erano i migliori militanti del movimento operaio. Gli anarchici hanno sempre sostenuto che la funzione finisce per corrompere anche il migliore, che ogni governo, per sua natura, ha bisogno di un ceto privilegiato che lo appoggi poiché non potendo accontentar tutti avrebbe bisogno di una classe economicamente potente che lo appoggi in cambio della protezione legale e materiale che ne riceve; che ogni parlamentare, sia pure il più rivoluzionario, è costretto a mediare con i parlamentari delle altre forze politiche per far passare qualche misura a favore degli operai, ad annacquare il proprio programma per ottenere qualche voto in più. In tal modo, quel poco di bene che viene ai ceti popolari dall'azione parlamentare dei loro rappresentanti, viene vanificato dalla corruzione e dalla divisione che si genera tra gli stessi ceti popolari.
Per gli anarchici, la strada imboccata conduce inevitabilmente ad una destinazione, la strada della delega e del governo non può portare all'emancipazione del proletariato. In altre parole è l'attività pratico-sensibile degli uomini che determina il loro essere e, in ultima istanza, anche le loro convinzioni, e non viceversa. Questa è la base del materialismo degli anarchici, è la base della diffidenza versi i socialisti “scientifici” che, dietro le loro formule astruse, cercano solo di sottomettere i movimenti di trasformazione sociale ai loro interessi di partito. Per questo i dottrinari, alla cui schiera indubbiamente Stalin appartiene, hanno in odio l'anarchismo: l'autonomia del proletariato, l'organizzazione federalista e autogestionaria, l'abolizione dello Stato, elementi caratterizzanti dell'anarchismo, segnano la fine del loro ruolo nefasto.

Le scarpe dei suicidi. Sole, Silvano, Baleno e gli altri

Le Scarpe dei Suicidi
Sole, Silvano, Baleno e gli altri
Tobia Imperato, 2003
scarica il libro

L’11 luglio 1998 è morta impiccata nel carcere delle Vallette Maria Soledad Rosas (Sole). Qualche mese prima, il 28 marzo, era morto nello stesso modo Edoardo Massari (Baleno). Insieme a Silvano Pelissero, Sole e Baleno, erano stati arrestati il 3 marzo con l'accusa di essere gli autori di alcuni attentati, avvenuti in Val Susa, contro i primi cantieri del Treno ad Alta Velocità. Lo squot di Collegno dove abitavano fu chiuso, mentre vennero attaccate altre due case occupate: l’Asilo fu sgomberato mentre all’Alcova l’operazione non riuscì. Tutti e tre si dichiarano innocenti.
Fu una pura montatura giudiziara, ordita dalla procura torinese di Laudi e dai ROS, ai danni del movimento anarchico e del nascente movimento NoTav. Nelle successive fasi processuali le accuse di banda armata e terrorismo caddero tutte, ma lo stato fece in tempo a far morire Baleno e Sole e a sequestrare Silvano per altri due anni. Due suicidi ad alta velocità e di stato. Le "granitiche" prove di Laudi, pm già noto alle cronache per le montature giudiziarie degli anni '70,  e Tatangelo, giovane pm rampante, si sbriciolarono ma avviarono un vortice repressivo grazie al quali altri compagni persero mesi di vita nelle patrie galere. Nel gennaio 1999 Silvano, unico sopravvissuto all’inchiesta di Maurizio Laudi, fu condannato a 6 anni e 10 mesi dal giudice Franco Giordana. Verrà liberato solo nel marzo 2002 dopo quattro anni di detenzione, in seguito alla sentenza della corte di cassazione che riconobbe l’inconsistenza delle prove relative all’associazione eversiva (art. 270 bis). Fu un'operazione voluta dai più alti vertici dello stato, attuata con la complicità di molti servili pennivendoli e lacchè di partito e sindacato. Fu un'operazione che, nonostante le sue tragiche conseguenze, non riuscì a fermare la lotta della Val di Susa e dei compagni torinesi.

A seguito della pubblicazione del libro di Tobia Imperato "Le scarpe dei suicidi" è stato scritto il documento "Come fare le scarpe ai suicidi" firmato alcuni figli di... nessuno che contesta la ricostruzione storica proposta da Imperato nel suo libro. Scaricalo qui

martedì 9 luglio 2013

Cosenza, un tetto per l'anarchia

La Fucina Anarchica di Cosenza
Gli anarchici cosentini hanno finalmente un posto tutto loro dove riunirsi per discutere, creare e organizzare la loro militanza attiva: la Fucina. Negli spazi occupati e autogestiti delle EX OFFICINE FERROVIE DELLA CALABRIA, dopo aver contribuito fattivamente alla nascita di  diverse realtà che hanno sottratto l'area tra viale Mancini e via Popilia alla speculazione edilizia, dopo essersi impegnati nella ristrutturazione dell'Auditorium popolare inaugurato il 24 aprile scorso, hanno iniziato a metter mano alla loro casa, coronando un sogno che dura da molto tempo.

I reietti dell'altro pianeta, Ursula K. Le Guin

I reietti dell'altro pianeta, Ursula K. Le Guin- 1974
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I reietti dell'altro pianeta (noto anche con il titolo Quelli di Anarres) del 1974 è uno dei più celebri romanzi di fantascienza utopica scritti da Ursula K. Le Guin.

«C'era un muro. Come ogni altro muro, anch'esso era ambiguo, bifronte. Quel che stava al suo interno e quel che stava al suo esterno dipendevano dal lato da cui lo si osservava». I due lati del muro rappresentano Urras e Anarres, due pianeti gemelli, che pur nutrendosi della luce dello stesso sole Thau Ceti sono divisi da secoli da una tra le più impenetrabili barriere: un muro ideologico.
Urras, lussureggiante, densamente popolato e tecnologicamente avanzato, è infatti governato prevalentemente da un sistema capitalistico, a differenza di Anarres, un pianeta difficile ed arido, che è stato colonizzato dai seguaci di Odo, un gruppo di anarchici che vi ha creato una società consona ai propri ideali, una fratellanza da cui il concetto di proprietà è stato sradicato in favore di un collettivismo spontaneo.
"I reitti dell'altro pianeta" narrà le vicende di Shevek, uno scienziato e riformatore politico tra i più importanti nella storia di entrambi i pianeti.

lunedì 8 luglio 2013

Presente: cronaca, conflitti, lotte, resistenze

Raccontare il presente significa lasciare una testimonianza di quello che si sta vivendo. Una realtà che non possiamo lasciare nelle mani degli storiografi, una realtà che dobbiamo consegnare a chi verrà dopo di noi scritta e documentata per evitare manipolazioni e occultamenti. In questa sezione del blog troverete post che riguardano la cronaca, i conflitti, le lotte e le resistenze quotidiane. Ogni contributo è ben accetto e verrà pubblicato. Basta mandare una mail a: morgana.alter@gmail.com specificando nell'oggetto: Presente.

Passato: storie, personaggi, attimi, gesti

Ogni vita merita un romanzo, o almeno un racconto. Alcune vite, però, lo meritano più di altre perché fungono da faro quando l'esistenza cade in balia della tempesta. E sono del tutto personali i criteri per i quali alcune vite sono più meritevoli degli altri. Può essere un ricordo che fa nascere una lacrima, può essere una ferita ancora aperta, può essere un gesto che ha cambiato la storia. Può essere un brivido, una sensazione piacevole che viene richiamata alla memoria da un nome, può essere l'inizio della fine di qualcosa o la inevitabile conseguenza di un gesto inconsulto. Ma può essere anche una storia che non si comprende fino in fondo, che merita di essere raccontata perché la verità venga fuori. In questa sezione sono raccolti i post che raccontano storie, personaggi, attimi e gesti che hanno segnato la mia vita, ma anche pezzi di memoria condivisa. Ogni contributo è ben accetto e verrà pubblicato. Basta mandare una mail a: morgana.alter@gmail.com specificando nell'oggetto: Passato.

Futuro: sogni, fantascienza, fantapolitica

Immaginare quello che sarà il nostro futuro è un esercizio salutare. Solo dopo aver fissato un obiettivo è possibile trovare la soluzione migliore per raggiungerlo. La fantasia aiuta a raccontare scenari rassicuranti o al contrario ostili che debbono essere scongiurati. In questo sezione del blog saranno raccolti post che parlano di sogni, di fantascienza e di fantapolitica. Ogni contributo è ben accetto e verrà pubblicato. Basta mandare una mail a: morgana.alter@gmail.com specificando nell'oggetto: Presente.

«Se non posso ballare, allora non è la mia rivoluzione»



"Se non posso ballare, allora non è la mia rivoluzione", scriveva Emma Goldman nella sua biografia. Io voglio ballare con lei in quella che è la mia rivoluzione quotidiana. Una rivoluzione interiore, di piccoli gesti, di semi gettati in terreni aridi, di riflessioni fatte ad alta voce accompagnate dal pensiero di una delle più grandi donne della storia.
Anarchica, femminista ante-litteram, Emma Goldman (1869 – 1940) precorse le idee di quel movimento che troverà poi il suo sviluppo negli Sessanta. Tenendo diverse conferenze sull'emancipazione della donna, sull'amore libero, sull'uso dei contraccettivi ed il controllo delle nascite, Emma Goldman tentò di tradurre in pratica tutto il suo ideale teorico e le sue aspirazioni libertarie, spesso scontrandosi con gli stessi anarchici e con il loro «istinto maschile di possesso, che non vede altro dio all’infuori di se stesso». La Goldman sosteneva «l’impossibilità per l’amore di esistere quando è imposto e non è libero», affermando che la donna doveva porsi nei confronti dell'uomo «come individuo dotato di una personalità e non come un bene sessuale».

Interviste

Non sono molto brava a parlare davanti al microfono. Mi trovo più a mio agio davanti a un foglio di carta e una penna. Qui ne trovate la prova.

Recensioni

Qui trovate le recensioni dei miei libri. Per leggere basta cliccare sul titolo.

#strettamentepersonale

Qui trovate i miei sfoghi, la mia rabbia, i miei dubbi, i miei gesti, le mie emozioni, i miei amori. Tutto #strettamentepersonale.